UGO MARIANI
SCRITTORI POLITICI
AGOSTINIANI
DEL SECOLO XIV
LIBRERIA EDITRICE FIORENTINA 1927
***
Trascrizione a cura di Paolo Piccinno
INDICE
Cap. I - Il secolo d'oro della Scolastica
Cap. II - Egidio Romano
Cap. III - Agostino Trionfo
Cap. IV - Giacomo da Viterbo
Cap. V - Bonifazio VIII e Filippo il Bello
Cap. VI - Il "DE REGIMINE PRINCIPUM" di Egidio Romano
Cap. VII - Le teorie politiche nell'inizio del secolo XIV
Cap. VIII - Il trattato "DE POTESTATE ECCLESIASTICA" di Egidio Romano
Cap. IX - Il "DE REGIMINE CHRISTIANO" di Giacomo da Viterbo
Cap. X - Le Opere minori di Agostino Trionfo
Cap. XI - La "SUMMA DE POTESTATE ECCLESIASTICA"
Cap. XII - Egidio Romano e Dante
Bibliografia
CAP. I
IL SECOLO D'ORO DELLA SCOLASTICA
[Pag. 1]
Nel 1277, tre anni dopo la morte di Tommaso di Aquino, ardevano più che mai vive le controversie che agitavano le scuole filosofiche della Parigi dotta ed accademica del secolo XIII. La divulgazione delle principali opere di Aristotele, i commenti greci ed arabi avevano infuso nuove e più ardite correnti di pensiero nell'insegnamento speculativo dei maestri che nel Medio Evo prescolastico si erano ispirati ai principi che S. Agostino, dopo avere largamente attinto alla tradizione neo-platonica, aveva elaborato e posto come base della sua grande organizzazione della filosofia cristiana. L'occidente aveva avuto non soltanto la sorte di ritrovare i monumenti smarriti della sapienza greca, ma d'iniziarsi ancora ai sistemi dottrinali che il genio arabo aveva escogitato. Erano ormai lontani i tempi nei quali Abelardo poteva con ragione lamentarsi che di Aristotele non si conoscese né la fisica né la metafisica. Ma il lavoro gigantesco di questi divulgatori e seguaci dello Stagirita non era riuscito ad imporsi, nella cerchia degli studi regolari [Pag. 2] ecclesiastici, senza grandi lotte e contrasti e proibizioni dell'autorità religiosa. Una serie di provvedimenti adottati in Parigi fra il 1210 e il 1215, e la dichiarazione di Gregorio IX con la quale nel 1231, fissando il suo regolamento fondamentale per l'Università parigina, ribadiva l'anatema che egli stesso tre anni innanzi aveva scagliato contro la metafisica aristotelica, mostrano quante diffidenze le nuove correnti filosofiche avessero suscitato negli ambienti ecclesiastici destinati a vegliare sull'ortodossia dell'insegnamento impartito nelle grandi università medioevali. Ma il pontefice aggiungeva che la condanna doveva considerarsi duratura fino al giorno in cui, con un nuovo e più rigoroso esame, si fosse pronunziato un definitivo giudizio sulle opere di Aristotele. Si voleva evidentemente lasciare, per l'avvenire, un ponte di passaggio fra le vecchie e le nuove correnti intellettuali. Parigi era allora il centro del movimento culturale europeo. La vita accademica della grande metropoli non era disorganizzata come un secolo prima, ai tempi delle grandi lotte fra realisti e nominalisti. Allora Pietro Abelardo poteva scendere dalla nativa Bretagna e tenere le sue lezioni, disputatore insuperabile, sulla cattedra levata alle libere aure di S. Genoveffa. Ora invece l'insegnamento era ufficialmente impartito nelle quattro facoltà teologiche, dei decretisti, degli artisti, della medicina, di cui si [Pag. 3] componeva l'Universitas sorta fin dal 1200 come spontanea associazione fra maestri e studenti incorporati nelle scuole della cattedrale di Notre-Dame. Vi accorrevano ad insegnarvi i più reputati maestri della dottrina cristiana, provenienti da tutti i paesi e spesso da altre università. Perché la filosofia medioevale non aveva peculiarità nazionali, e lo scienziato di quel tempo, assorbito nel circolo della scienza universale, in ogni centro organizzato del sapere trovava lo stesso mondo intellettuale unificato da Roma, raccolto in una fede dal cristianesimo. Alberto Magno, Tommaso di Aquino, Bonaventura da Bagnorea levarono alto grido con il loro tentativo fortunato di una riforma della filosofia cattolica. In seguito Sigieri di Brabante, Matteo d'Acquasparta, Riccardo di Middleton, Goffredo di Fontaines, Egidio Romano, Giacomo da Viterbo, Enrico di Gand, una folla di grandi, illustrarono quella scuola famosa. E Scoto, professore ad Oxford, a Parigi, a Colonia, dottore sottile e pungente, vi teneva lezione, nei primi anni del secolo XIV, a numerosi discepoli, maneggiando mirabilmente contro Tommaso l'arme terribile dell'ironia. Nel 1308 anche Dante, dopo una lunga dimora nel Casentino, nella corte dei conti Guidi, con nel cuore e nella carne l'amaro ricordo della passione che la donna di pietra vi aveva scatenato, si recava a Parigi e si dava, dice il Boccaccio, "allo studio della filosofia e della teologia, [Pag. 4] ritornando ancora in sé dell'altre scienze ciò che forse, per gli altri impedimenti avuti, se n'era partito". Tre grandi scuole filosofiche si contrastavano il terreno a Parigi nella seconda metà del secolo XIII: l'antica scolastica o sistema pretomistico, il peripatismo della scuola albertino-tomista, l'aristotelismo averroistico di cui Sigieri di Brabante, elogiato da Pietro du Bois ed immortalato nel paradiso dantesco, era il propugnatore più acclamato. L'averroismo negava l'individualità spirituale asserendo che l'intelletto onde s'illumina ogni uomo è uno, sosteneva una Provvidenza ristretta al solo governo generale, lo svolgersi progressivo delle intelligenze che informano gli astri, il fatalismo negli avvenimenti del mondo, l'eternità della materia, l'emanazione da Dio. La polemica più ardente si svolgeva fra i seguaci dell'agostinismo e i tomisti. Questi ultimi battevano in breccia i caposaldi della dottrina così detta agostiniana, nella quale mancava una distinzione formale tra l'ordine delle verità rivelate e quelle naturali, tra il dominio della teologia e quello della filosofia, era definita la preminenza della nozione del bene su quella del vero e il conseguente primato della volontà sull'intelligenza, l'impossibilità della creazione del mondo ab aeterno, la necessità che alcuni atti intellettuali dell'uomo siano prevenuti da un'azione illuminatrice da parte di Dio, la positiva [Pag. 5] attualità per quanto infima ed embrionale della materia prima indipendentemente da ogni informazione sostanziale, l'individuazione dell'anima per virtù propria, non in conseguenza dell'unione col corpo, in modo che nel composto umano la materia è come lo sfondo del quadro, la forma come il contorno e il disegno (1). In opposizione alla scuola agostinista, il tomismo accettava la dottrina aristotelica della potenza e dell'atto, da cui l'Aquinate traeva molte tesi che differenziano il suo sistema dagli altri indirizzi filosofici dell'epoca. Il grande dottore sosteneva inoltre l'esatta e precisa differenza tra natura e supernatura, tra fede e scienza, teologia e filosofia, concepiva la materia prima come qualche cosa di puramente potenziale, rigettava la teoria della pluralità delle forme sostanziali sino ad allora generalmente ammessa, riteneva quale principio d'individuazione la materia quantitate signata. Erano queste le principali dottrine intorno alle quali ferveva la lotta delle due correnti filosofiche. Ma come notava argutamente il Card. Francesco Ehrle (2) colla distinzione delle due tendenze dottrinali non si vuole affermare l'esistenza di partiti [Pag. 6] dei quali l'uno non seguisse che opinioni del grande vescovo d'Ippona e l'altro che teorie di Aristotele. Nel campo teologico regnava sempre S. Agostino, autorità indiscussa da tutte le scuole dell'epoca. Le divergenze esistevano soltanto nel campo filosofico con riflessi molteplici sul teologico. Ma si finì per stabilire esattamente la distinzione formale tra il dominio della filosofia e quello della teologia, dopo che quest'ultima fu arricchita delle verità naturali. Ma a questi risultati si pervenne soltanto dopo molti anni e lunghe discussioni. L'assimilazione dell'Aristotelismo nei circoli scientifici di Europa, con processo lento e vivaci contrasti, si protrasse per tutto il secolo XIII e parte del XIV, perché la Chiesa previdente sottoponeva lo Stagirita al vigile controllo della fede soprannaturale e dell'amministrazione carismatica della tradizione cristiana. Per l'ardore che dimostravano nel prendere parte a queste controversie si distinguevano gli Ordini Mendicanti, Francescani e Domenicani sopra tutti. Anche gli Eremitani di S. Agostino, sebbene da appena due decenni usciti dall'ombra dei cenobi e riuniti in un sol corpo da Alessandro IV, presero la loro posizione in quelle interminabili polemiche. E nella lotta così importante per la fissazione delle forme intellettuali della tradizione cristiana, Egidio Romano, il più illustre rappresentante del giovine Ordine, fece udire e, spesso con esito decisivo, la sua parola. [Pag. 7] Il 7 marzo 1277, Stefano Tempier, vescovo di Parigi, compilò una lista di 219 proposizioni che egli considerava eretiche e proibì di difenderle, pena la scomunica. Diretto principalmente contro l'averroismo, questo sillabo colpiva anche il peripatismo tomistico condannando cinque teorie fondamentali di questo sistema riguardanti l'unità del mondo (3), l'individuazione delle sostanze spirituali e materiali (4), la localizzazione delle sostanze separate e il loro rapporto con il mondo fisico (5), la dipendenza dell'anima dalle condizioni del corpo nelle sue operazioni intellettuali (6), il determinismo sotto il quale la volontà compie i suoi atti (7). La dottrina di S. Tommaso dell'unicità delle forme tanto violentemente combattuta, non era stata compresa fra le proposizioni vietate, ma il Tempier ed i suoi partigiani trovarono ugualmente il modo di raggiungere il loro intento. A dì 18 marzo dello stesso anno, Roberto Kilwardby, arcivescovo di Cantorbery, primate d'Inghilterra, cui spettava il diritto di vigilanza sull'Università di Oxford, proibì una serie di tesi grammaticali, logiche, fisiche, colpendo numerose dottrine tomiste, non esclusa quella della unicità [Pag. 8] della forma o della passività della materia prima nei corpi. Egidio Romano, allora baccelliere, prese la penna per difendere energicamente il suo maestro Tommaso di Aquino ed anche se stesso, perché non poche delle teorie colpite erano da lui caldeggiate. Scorrendo gli scritti del filosofo agostiniano, noi possiamo conoscere soltanto alcune delle tesi che, proibite dai vescovi di Parigi e di Cantorbery, erano state da lui propugnate. L'articolo 96 condannato da Stefano Tempier sosteneva che Dio non può moltiplicare gli individui sotto una sola specie senza materia: a questa sentenza invece inclinava Egidio (8). Aveva anche difeso l'altra opinione ugualmente condannata dal sillabo, che le anime nell'atto della creazione siano ineguali quantum ad sua naturalia, e nel suo In secundum Sententiarum, dedicato a Re Roberto, si rammarica che tale proposizione sia stata a Parigi proibita. (9). [Pag. 9] Nel suo trattato Contra gradus et pluritates formarum non dubita di asserire che il pluralismo, inculcato dal Tempier, contradice alla fede (10), e biasima coloro che vogliono ad ogni costo trovare errori in quei grandi che furono i campioni del pensiero cristiano. Il vescovo, avendogli indarno domandato una ritrattazione, proibì che gli si desse il dottorato e lo sospese dall'insegnamento nell'Università: la carriera scolastica di Egidio era spezzata. Ma l'Ordine non rinnegò il suo giovane a già illustre alunno, lo colmò anzi di onori. Nel giugno del 1279, il baccelliere parigino fu nominato definitore della Provincia Romana per il Capitolo Generale che doveva celebrarsi, due anni dopo a Padova (11), ed egli si affrettò a tornare in Italia.
NOTE
1)
Cfr. MAURIZIO DE WULF, Storia della filosofia medioevale, trad. it. Del sac. Alfredo Baldi, vol. II, p. 39; FELICE TOCCO, Le correnti del pensiero filosofico nel secolo XIII, in Conferenze Dantesche,II, Arte e Scienza e Fede ai giorni di Dante.2)
In Xenia Thomistica, Romae 1925, in Pont. Collegio Angelico, vol. III, pag. 529.3)
Prop. 34, 77.4)
Prop. 96, 81, 191, 27, 97.5)
Prop. 69, 218, 219.6)
Prop. 187, 124.7)
Prop. 173, 163, 129. Cfr. DENIFLE, I, pagg. 544ss.8)
Cfr. AEGIDII COL., Quodlibeta revisa, correcta etc. studio P. D. Coninck, Lovanii typ. H. Nempaei, 1646, p. 65. "Respondeo dicendum (intorno alla questione: utrum Deus possit facere plures angelos in eadem specie) quod de hoc sit articulus parisiensis, in quo dicitur quod error sit dicere quod quia intelligentiae non habent materiam, Deus non possit plures eiusdem speciei facere. Optandum vero foret quod maturiori consilio tales articuli fuissent ordinati, et adhuc sperandum quod forte de iis in posterum sit habendum sanius. Hinc in praesenti, quantum possumus, et ut possumus, articulum sustinemus".9)
Ediz. di Venezia 1580, pag. 471.10)
Ediz. di Venezia 1502, fol. 211.11)
Capitulum provinciale de Perusio primum: "Diffinitorem eligendum reservavit sibi (Francesco da Reggio, priore generale degli Eremitani), scilicet, prope Capitulum Generale: fecit fratrem Egidium Romanum, Beccellarium parisiensem". Cfr. ANALECTA AUGUSTINIANA (1907), II, pag. 230.
CAP. II
EGIDIO ROMANO
[Pag. 10]
Non si può con certezza stabilire l'anno della sua nascita. Gandolfo (1), Gregorovius (2) ed altri ritengono che egli sia nato nel 1247; Luigi Torelli (3) e Ugo Oxilia (4) opinano che tale data possa essere presumibilmente accettata, perché egli nell'anno 1316, in cui, secondo l'epigrafe del suo sepolcro, sarebbe passato a miglior vita, avrebbe contato, a quanto riferiscono i biografi dell'Ordine, sessantanove anni. Turner invece segue un altro calcolo e ne pone la nascita dell'insigne dottore nel 1243 (5). A noi questa data sembra più probabile. Come proveremo in seguito, Egidio nel 1277, all'inizio [Pag. 11] della sua lotta con il Tempier, era già baccalaureus formatus cioè prossimo al dottorato. Ora secondo gli statuti universitari (6), nessuno poteva diventare magister in teologia prima del suo 35° anno di età. Computando quindi che il nostro filosofo (il quale cominciò giovanissimo, si noti bene, il corso degli studi) avesse 35 anni nel 1277 o 1278, la data della sua nascita può riportarsi al 1242-1243. E' probabile che egli discenda dalla nobile famiglia dei Colonna, come molti biografi, editori delle sue opere e scrittori di cose ecclesiastiche e filosofiche affermano. I suoi contemporanei lo chiamano semplicemente Romanus. Al casato Colonnese lo ascrive Giordano di Sassonia, nato verso la fine del sec. XIII e morto nel 1380, e quindi in grado di apprendere le notizie, riguardanti il nostro dottore, dalla generazione che l'aveva conosciuto. Nelle biografie degli Agostiniani illustri del suo tempo questo grave scrittore ha tessuto l'elogio di Egidio Romano "de nobili genere Colunieniensium ortus" (7). Ma Ambrogio da Cori (detto anche [Pag. 12] Coriolanus), priore generale degli Eremitani, che visse un mezzo secolo dopo Giordano, non conferma, ma piuttosto ingenera dei dubbi intorno a questa asserzione. Nella sua storia dell'Ordine degli Agostiniani, due volte egli nomina Egidio, a foglio VII dove dice che nel capitolo generale di Orvieto del 1284 era presente "excellentissimus doctor... Dominus Egidius de Roma", e a foglio X, dove, enumerando i dotti Agostiniani, così scrive: "Ex quibus post unionem divum hominem fratem Egidium romanum de regione columne in primo loco ponimus" (8). Le quali parole farebbero sospettare che Egidio non dalla famiglia principesca sia disceso, ma piuttosto abbia avuto i natali nel terzo rione (regio) di Roma che si stendeva nel territorio limitato tutt'intorno dai quartieri di Campo Marzio, S. Eustachio, Pigna e Trevi, ed era chiamato appunto della Colonna; non dall'illustre gente dello stesso nome che abitava nel secondo rione, quello di Trevi, ma dalla colonna Antonina che era situata nel suo centro. Qualche dubbio è pure in noi suscitato del fatto che nell'iscrizione apposta al monumento che gli agostiniani di Parigi gli inalzarono, dopo la sua morte, non si fa parola della sua stirpe, a meno che non si voglia asserire con Nicola Mattioli (e la ragione non sarebbe convincente) "che dai suoi confratelli non se ne [Pag. 13] sarà fatta menzione: sia per rispettare la volontà di lui vissuto sempre umile e modesto, assai più pago davvero rebus gestis florere, quam maiorum opinione uti, sia perché i confratelli ben consapevoli della fiera inimicizia dei Colonna contro Papa Bonifazio, tuttora vivo a quei tempi nella memoria dei Francesi, non avran creduto di onorarlo gran fatto, chiamandolo Colonnese" (9). Non ci deve invece allarmare il fatto che Egidio, se veramente sia stato un Colonna, abbia seguito le parti di Bonifazio VIII, perché sappiamo, dopo gli studi del Fincke e dello Scholz, che non tutta la nobile famiglia fu ligia ai cardinali Giacomo e Pietro nella lotta che intrapresero contro il papa. Dopo il Coriolano, abbondano le testimonianze sulla discendenza di Egidio dalla potente famiglia romana. Da Giacomo Filippo Foresto di Bergamo, il cui Supplemento alle Cronache fu stampato la prima volta nel 1483 (10), sino al Tiraboschi (11), a Pompeo Litta (12), al Gregorovius (13) si può dire che [Pag. 14] ininterrottamente gli storiografi abbiano attribuito il cognome dei Colonna al grande filosofo agostiniano, sebbene non siano mancati dei mormorii che dal genovese Gandolfo, in sul principio del sec. XVIII, ci sono vagamente riferiti (14). I biografi di Egidio non ci tramandarono l'anno del suo ingresso nel convento di S. Maria del Popolo, che fin dal 1250 era in possesso degli Eremitani di s. Agostino (15). Giordano di Sassonia ci attesta che indossò il saio monastico ancora adolescente e dopo una dura lotta con la famiglia (16). Vuole il Lajard (17) che alla fine del suo noviziato egli fosse inviato subito a Parigi per farvi i primi studi. Ma questa notizia, oltre che smentita dagli antichi storici (18), non si accorda con la consuetudine degli Agostiniani di mandare allo studium parisiense soltanto i giovani che avessero già [Pag. 15] compiuto i corsi di grammatica e di logica, le così dette arti liberali del Trivio (19). Egli però doveva essere molto giovine quando si trasferì in Francia, perchè nel testamento che riporteremo in seguito, lasciò scritto che era stato allevato "a pueritia" nel convento parigino. Ioinville afferma che gli Eremitani fecero nel 1259 il primo ingresso a Parigi, fissando la loro dimora fuori dell'antica porta di S. Eustachio, sulla via che conduce a Montmartre (20). La sua asserzione è comprovata dai documenti che il Denifle ha pubblicato. Esiste ancora nell'Archivio Nazionale di Parigi l'originale dell'atto con cui Giovanni da Gubbio acquistava in quella località, dalla vedova Teofonia, una casa con giardino. Steso e firmato il contratto, "Fr. Giovanni da Gubbio, dei frati Eremitani di s. Agostino, costituito Vicario e Visitatore generale nei regni di Francia, d'Inghilterra e nelle parti di Scozia, da Lanfranco priore generale di detto ordine", riconfermava la compera alla presenza degli Arcidiaconi di Parigi Giovanni, Radulfo e Gaufrido e dichiarava che intendeva costruire domum et oratorium ad opus dictorum fratrum (21). [Pag. 16] In seguito Alessandro IV, con lettere del 28 giugno 1260 dirette al priore e alla comunità agostiniana di Parigi, riconosceva il loro possesso di beni mobili e immobili e concedeva indulgenze (22). In questa casa fu istituito il primo studio generalizio dell'Ordine, ma gli Eremitani non vi dimorarono lungo tempo. Venticinque anni dopo, e precisamente il 28 agosto 1285, il Capitolo di Parigi vendeva a Fr. Giovenale da Narni, Vicario del Generale Clemente da Osimo, un appezzamento di terra, situato in un luogo detto Cardineto, affinché "possint dicti religiosi ecclesiam, oratorium cimiteriumque et quodcumque sacrum construere absque contradictione nostra successorumque nostrorum". Lo strumento di vendita fu pubblicato dal Denifle (23). In nota al contratto l'autore del Chartularium asserisce che nell'archivio nazionale di Parigi si conservano quattro atti originali, tre del 1285 ed uno del 1286, che trattano dell'acquisto dall'abate di S. Vittore di alcuni appezzamenti di terra e di una casa in Cardineto "ad opus ipsorum fratrum Parisius studentium et usus totius Ordinis" (24). [Pag. 17] E' lecito supporre che per fronteggiare le spese ingenti che la costruzione del nuovo convento importava, tutte le provincie dell'Ordine, forse dietro invito del Generale Clemente da Osimo, si tassassero generosamente. Abbiamo però esplicita menzione soltanto della provincia romana che nel 1288 elargì pro loco novo parisiensi de Cardineto LXXVJJ floreni et JJJJor turonenses grossi" (25). L'abitazione ceduta agli Agostiniani dall'abate e dai monaci di S. Vittore, confinava con una casa [Pag. 18] chiamata Bonorum pueroum (26), perché probabilmente adibita all'educazione di scolari parigini chiamati dal popolo i buoni fanciulli. Anche questo edificio che era situato nella parrocchia di S. Nicola in Cardineto (27), fu comprato dagli Eremitani (28). Nel 1293 gli Agostiniani abbadonarono il convento di Cardineto e si trasferirono nel monastero abitato dagli ex frati del Sacco o della penitenza. Il concilio di Lione aveva soppresso fin dal 1274 la loro congregazione, e Filippo il Bello donava il magnifico edificio all'Ordine di S. Agostino "ob favorem potissimum dilecti et familiaris nostri fratris Egidii Romani... sacre pagine professoris" (29). Nell'agosto dell'anno seguente lo stesso Filippo concedeva agli Eremitani di vendere la casa e i terreni che avevano a Cardineto (30) dei [Pag. 19] quali per regolare compera venne in possesso il Cardinale Giovanni Monaco, a dì 5 Marzo 1302, che vi fondò un collegio (31). La nuova dimora degli Agostiniani, situata sulle rive della Senna, rimpetto al Louvre, fu l'origine del gran convento, o convento des Grands Augustins, così glorioso negli annali ecelesiastici di Francia. Alla cessione di questa casa si oppose sulle prime Simone de Bucy, vescovo di Parigi, ma, dietro intervento della S. Sede, rinunziò ai suoi diritti sul monastero ed ebbe parole di elogio per gli Eremitani "quos fama publica referente percepimus religiose vivere ac theologie studiis viriliter insudare, potissimumum ob favorem dilecti nostri fratris Egidii Romani dicti Ordinis sacre pagine professoris, si quid juris habemus in prefato loco... concedimus et donamus" (32). Bonifazio VIII, in data 13 Settembre 1296 ratificò la cessione del luogo agli Agostiniani e la rese perpetua (33). Non è qui il luogo di fare la storia dell'Ordine che tanti attestati di benevolenza riceveva dalla Corte di Francia e dai Sommi Pontefici. Fondato da S. Agostino dopo la sua [Pag. 20] conversione, 388, in breve volgere di anni si era diffuso, in tutta l'Africa Cristiana. L'invasione dei vandali verso la metà del secolo V, disperse i figli d'Agostino. Parte di essi perì sotto il ferro degli invasori, parte cercò uno scampo altrove. E in dubbio che non pochi approdarono in Sardegna, sulle coste della Spagna e dell'Italia. Agli storici documentare che il fuoco sacro acceso da Agostino in Africa come primo frutto della sua conversione non si spense del tutto nei secoli dell'alto medio evo, che sopravvisse in mezzo a tante rovine, e che una parte almeno degli eremiti agostiniani dei quali, dopo il mille, si trova qua e là cenno discendevano direttamente dalla grande famiglia del Santo dottore africano. L'organizzazione ufficiale delle sparse membra di questi eremiti agostiniani si completò sotto il papa Alessandro IV nel 1256. Questo pontefice chiamati in Roma i rappresentanti delle varie congregazioni che professavano la regola monastica di S. Agostino, le riunì con apposita bolla "Licet Ecclesiae" (34) in un grande ed unico Ordine dando loro un solo capo supremo che governasse la religiosa famiglia. Questo avvenimento passò alla storia degli Agostiniani sotto il nome di "magna unio ". Così ampliato e rinsanguato, l'Ordine si dilatò ben presto in tutto l'occidente, rendendo segnalati servizi all'incivilimento dei popoli [Pag. 21] cristiani. Nel campo del sapere divenne ben presto emulo delle più antiche congregazioni monastiche. Il Feret nel suo libro La faculté de la Theologie deParis fa una cronologica esposizione della vita e dell'attività di ventuno insegnanti Eremitani che hanno illustrato la celebre Università parigina. (35). Proprio quando Dante spiegava la sua attività filosofico-letteraria, l'Ordine numerava i suoi più grandi pensatori. L'educazione scientifica dei giovani alunni agostiniani era assai accurata. Numerosi collegi generalizi, oltre gli studentati che ogni provincia teneva aperti, erano stati fondati per essi. Nel capitolo generale tenuto a Firenze nel 1287, fu stabilito che in Italia gli "Studia Generalia" fossero quattro (36). Ogni provincia doveva inviarvi un alunno (37). La scelta dei candidati era fatta [Pag. 22] con criteri molto rigorosi. La loro idoneità doveva stabilirsi mediante un esame sostenuto alla presenza del Priore Generale dell'Ordine, o dei Padri che partecipavano ad un capitolo Generale (38). Anche a Parigi tutte le Provincie inviavano uno dei loro giovani per frequentarvi almeno cinque anni la facoltà teologica (39). Terminato il quinquennio tornavano in patria e nominati lettori, dopo però aver subito un esame severo, insegnavano nei vari collegi generalizi (40). I migliori alunni rimanevano a Parigi per ottenere i gradi accademici nella grande università. I candidati al magistero, terminato il corso di teologia che durava per i regolari sei anni (41), [Pag. 23] ridotti poi a cinque per gli agostiniani (42), dovevano frequentare per almeno un anno i corsi di filosofia nella facoltà delle Arti, quindi leggere per alcuni anni la Bibbia e le Sentenze. In seguito gli Eremitani ottennero di potere abbreviare il corso per i loro giovani. Furono dispensati della lettura della filosofia dopo il quinquennio di teologia, (43) ed il tempo da essi impiegato ad insegnare nei vari studentati dell'Ordine avanti la lettura delle Sentenze, fu loro computato, agli effetti della carriera scolastica, come se l'avessero trascorso a Parigi (44). [Pag. 24] Gli alunni erano largamente sovvenzionati e provveduti di testi scolastici. (45) I baccellieri non dovevano eccedere il numero di quattro, ed ogni provincia doveva sborsare annualmente, per la loro provvista di libri, venti soldi di Tours (46). Ciò non impediva, che altre collette, spesso generose, fossero ordinate per loro nei capitoli regionali, specialmente in occasione del conseguimento del magistero. I conventi generalizi avevano tutti una ricca dotazione di libri gelosamente custoditi. Alcune [Pag. 25] definizioni capitolari sono espressive a tale riguardo: "Diffinimus ut in unoquoque conventu ubi est studium generale, armarium fiat infra VI menses, et ordinetur custos a priore qui de libris curam gerat, et scriptor teneatur assidue in subsidium armarii supradicti. Et si prior et procurator non fecerit fieri infra dictum terminum careant provisione indumentorum (47). Diffinimus quod libri qui habentur parisiis dati vel legati loco parisiensi nec vendantur, nec alienentur, nec subpignorentur, nec prestentur extra domum, nisi habito equali pignore" (48). A Parigi Egidio, secondo l'unanime testimonianza dei biografi, ebbe la ventura di ascoltare le lezioni di Tommaso di Aquino. Se ciò è vero, e non abbiamo nessuna ragione per dubitarne, l'incontro fra i due grandi dottori, l'uno già glorioso e l'altro in procinto di divenirlo, dovette avvenire durante il secondo periodo dell'insegnamento parigino [Pag. 26] di Tommaso, quando, tornato nel 1269 nella metropoli francese, vi rimase sino alla fine de1 1271. Un contemporaneo di Egidio, Guglielmo da Thoco dell'Ordine dei Predicatori, ci da al riguardo preziosi, sebbene non tutti esatti, particolari. Afferma questo scrittore che il giovane agostiniano fu per tredici anni discepolo dell'Aquinate, e tanta stima ed affetto concepì per il suo maestro da lodarne poi sempre la scienza e la tenacia nel difendere le proprie opinioni (49). Pure ammettendo l'importanza di questa notizia che ci comprova l'incontro del giovane eremitano con il grande filosofo, non possiamo riconoscerla esatta per quanto riguarda la durata del tempo trascorso da Egidio nella scuola di Tommaso, perchè altrimenti bisognerebbe supporre che l'Agostiniano avesse ascoltato il maestro di Aquino durante il suo primo insegnamento di Parigi, che [Pag. 27] iniziato nel 1252, si prolungò sino al 1260, mentre soltanto verso la fine del 1259 gli Eremitani ebbero modo, come abbiamo veduto, di stabilirsi nella capitale di Francia. Egidio Romano dopo la polemica sostenuta con Stefano Tempier, rimase per lunghi anni semplice baccelliere. Impedito dal tener pubbliche lezioni, egli dedicò al suo Ordine maggiore attività. Sfogliando i Regesti degli Agostiniani dal 1281 al 1285, notiamo la sua presenza in tutti i capitoli generali e regionali che si celebrarono in quegli anni. Egli è sempre appellato Baccellarius parisiensis. Tre volte i confratelli del Lazio gli dettero un bellissimo attestato di stima rimettendo a lui la scelta dei Superiori e degli Officiali della provincia (50). La lunga permanenza di Egidio in Italia in questo periodo di tempo, ci rende dubbiosi di quanto asseriscono alcuni storici, (51) che cioè proprio in questi anni fosse incaricato da Filippo III dell'educazione del figlio. E non vale il fatto che il giovane principe salito poi sul trono di Francia e rimasto famoso nella storia con il nome di Filippo il Bello, lo richiedesse in seguito di scrivere [Pag. 28] il De Regimine Christiano, come risulta dalla dedica, premessa al libro, e lo chiamasse diletto e famigliare nostro quando donò agli Agostiniani il convento degli ex frati del Sacco. Il brillante professore che sì alto rumore della sua eloquenza e della sua dottrina aveva levato a Parigi, poteva essere bene accetto a Corte, senza coprirvi la carica di pedagogo del principe. Dopo il 1285 i Regesti dell'Ordine tacciono, per un breve periodo di tempo, di Egidio Romano: l'illustre filosofo era tornato nella capitale francese. Proprio in quell'anno Rodolfo d'Ombier, che era succeduto al Tempier nel seggio episcopale di Parigi, aveva chiesto ad Onorio IV la condanna delle proposizioni che il predecessore aveva già proscritto. Il pontefice che vedeva amareggiato da quell'eterne contese il primo anno del suo pontificato, inclinava invece ad una concilazione. Sollecitò pertanto Egidio a ritrattare le sue antiche dottrine condannate e lo rimandò in Francia dopo averlo munito di una lettera commendatizia per il vescovo Rodolfo. Il Papa dopo avere accennato alla polemica sostenuta dall'agostiniano con il Tempier e la facoltà teologica, dichiarava nella lettera che Egidio era pronto a ritirare ciò che prima aveva scritto e predicato. La compilazione della formula di ritrattazione il Pontefice la rimetteva al vescovo, [Pag. 29] al cancelliere ed ai maestri della facoltà teologica (52). Evidentemente Onorio IV, desideroso di troncare i disgustosi litigi che turbavano la serenità [Pag. 30] degli studi scientifici, non voleva pronunziarsi in merito alla controversia. Cinque mesi dopo, allorchè Filippo, succeduto al padre, tornò a Parigi dalla rituale consacratione di Reims, Egidio, a nome dell'Università recitò il discorso augurale che il cronista Paolo Emilio ci riferisce non sappiamo con quanta fedeltà (53). Nel maggio del 1287 il Capitolo generale dell'Ordine celebrato in Firenze rese omaggio alla reputazione mondiale del grande filosofo, asserendo che la sua scienza onorava il mondo intiero (mundum universum illustrat), e imponendo a tutti gli Eremitani di accettare e difendere le teorie di Egidio, non soltanto quelle che erano già conosciute, ma ancora le altre che per l'avvenire avrebbe pubblicato. "Quia venerabilis Magistri nostri fratris Egidii doctrina mundum universum illustrat, diffinimus et mandamus inviolabiliter observari, ut opioniones, popositiones et sententias scriptas et scribendas predicti Magistri nostri, omnes ordinis nostri lectores et studentes recipiant eisdem prebentes assensum, et eius doctrinae omni quia poterunt sollicitudine, ut et ipsi illuminati alios illuminare possint, sint seduli defensores" (54). [Pag. 31] Non si può negare che il testo di questa ordinanza sia alquanto forte. Ma probabilmente i Padri capitolari erano animati da un sentimento di reazione contro il trattamento inflitto dal Vescovo e dall'Università di Parigi al loro confratello, e dal desiderio di riconoscere solennemente la fama che nel campo scientifico si era procacciata. L'appellativo di dottore che Egidio riceve in questa definizione, è segno evidente che egli aveva ottenuto l'incorporazione nel gruppo dei maestri. Ma la data precisa di questa incorporazione ci è sconosciuta e la sua ricerca ha dato luogo a molte questioni. Il grande filosofo è senza dubbio il primo magister agostiniano, in ordine di tempo, dell'Università parigina. Inter fratres nostri Ordinis, lasciò egli scritto nel testamento, magisterium in sacra theologia primi Parisiis meruimus obtinere. Il Denifle opina che la prima notizia del magistero di Egidio sia contenuta nella sopra riportata definizione (maggio 1287). Riferite le parole del capitolo fiorentino, egli cita un documento in data aprile del 1286, conservato nell'Archivio nazionale di Parigi, nel quale il dottore agostiniano è menzionato con il titolo di maestro (55). Ma l'autore del Chartularium [Pag. 32] rimane incerto sulla vera data di questo sccondo documento. Riportandolo poi per intiero in un altro luogo della sua opera, egli espone la ragione dei suoi dubbi. Lo scritto citato è del seguente tenore: "Anno Domini M° CC° octuagesimo sexto taxaverunt magistri in theologia frater Egidius et magister Iacobus Dalos, et quatuor magistri in artibus et duo burgenses" (56). Sono registrate in seguito altre tasse poste su alcune case, secondo l'usanza d'allora, da altri dottori. Pervenuto all'anno 1288, il Denifle con ragione osserva: Annus hic notatur iuxta morem Gallicanum (è noto l'uso francese di computare l'anno da una Pasqua all'altra), id est anno 1289 ante Pascha (10 aprile) nam ex documento supra (n. 551, una lettera di Niccolò IV scritta il 31 dicembre 1288 al cancelliere dell'Università con l'ordine di conferire il magistero a Giovanni de Murro) "edito apparet fratrem Iohannem de Murro O. Min. in fine anni 1288 nondum magistrum in theologia fuisse. In hoc documento tamen nominatur magister in theologia. Fortasse etiam anni 1286 et 1287 huius documenti sumendi sunt secundum morem Gallicamum, id est pro annis 1287 et 1288 ante Pascha ..." (57). Ma con tutto il rispetto per l'illustre scrittore osserviamo che anche ammesso che il 1286, nel quale Egidio tassò [Pag. 33] alcune case, debba computarsi secondo l'antico costume francese e quindi significhi il 1287 avanti Pasqua che cadde in quell'anno nel 6 aprile, il documento citato sarebbe pur sempre anteriore alla definizione di Firenze che fu emessa nel maggio e quindi almeno un mese dopo. Alcuni biografi di Egidio citano anche una relazione, attribuita a Goffredo de Fontaines, di un'assemblea di teologi che si riunirono per decidere intorno alla controversia sorta tra il clero secolare e gli Ordini mendicanti relativamente al privilegio di udire le confessioni dei fedeli e assolverli senza l'approvazione degli Ordinari. Sebbene il Crevier, il Fleury e il Lajard (58) facciano risalire al 1281 questo congresso, il Denifle (59) e l'Ehrle (60) hanno inoppugnabilmente provato che esso debba riportarsi al dicembre del 1286. La relazione termina con parole che per noi potrebbero avere grande importanza: "Super his postea disputatum fuerat a magistro Egidio de Ordine Augustini, qui melior de tota villa in omnibus reputatur, et determinatum fuit ab eodem, quod episcopi essent in parte longius [Pag. 34] saniori. Quarum determinationum copiam propter novitatem habere ad presens non potui. Sed tamen si habere potuero, mittere non tardabo. Et ecce privilegia fratrum" (61). Sembrerebbe da questo passo che il nostro dottore, già incorporato nel gruppo dei maestri, fosse intervenuto all'assemblea e vi avesse parlato per sostenere le ragioni dei vescovi: la questione della data sarebbe così risolta. Ma come notava il Denifle, la relazione di Goffredo di Fontaines non fu scritta subito dopo il congresso e quindi le dispute di Egidio non ebbero luogo in quel medesimo anno, perchè altrimenti il documento le avrebbe riferite insieme ai discorsi degli altri oratori. Le argomentazioni inoltre di Egidio sono chiamate determinationes vocabolo che, secondo il linguaggio del tempo significava una serie di esercitazioni scolastiche raccolte poi in volume. E che proprio di queste debba trattarsi è confermato da quanto aggiunge lo scrittore e, cioè, che ancora non ha potuto procacciarsi una copia della disputa. L'allusione a qualche pubblicazione del maestro agostiniano è qui evidente. Ma vi è di più. In una lunga lettera indirizzata all'arcivesceovo di Reinis da Guglielmo de Macon, vescovo di Amiens, tenace difensore dei diritti del clero secolare, per informarlo [Pag. 35] minutamente delle discussioni e deliberazioni dell'assemblea di Parigi, non si fa menzione alcuna di Egidio (62). Segno evidente che non vi aveva parlato, perché, in caso contrario, data la sua autorità (qui melior, è detto nell'altra relazione, de tota villa in omnibus reputatur) e dato il fatto che egli difendeva la tesi dei vescovi, il silenzio sarebbe inesplicabile. Noi però crediamo che in quell'anno il filosofo eremitano fosse già dottore: una scintilla di luce per dirimere l'intricata questione l'abbiamo trovata nella lettera che Onorio IV indirizzò al vescovo di Parigi per fare riammettere Egidio nell'Università. Il documento è stato già da noi riferito. Una frase del Pontefice merita tutta la nostra attenzione. Oltre che fissare le modalità della ritrattazione e riabilitazione del suo protetto, il Papa impone che gli sia concessa la licentia d'insegnare. "Circa licentiam et expeditionem ipsius auctoritate nostra provideas, prout secundum Deum fidei catholice ac Parisiensis studii utilitati de consensu majoris partis magistrorum ipsorum videris expedire". Parole queste che, secondo il linguaggio usato nelle scuole dell'epoca, esprimevano l'ordine di conferire il magistero in sacra teologia. Il baccellierato comprendeva allora tre gradi: il primo di biblicus ordinarius, l'altro di sententiarius, [Pag. 36] il terzo di baccalaureus formatus. Si otteneva quindi il diritto di essere presentato al cancelliere per la licentia d'insegnare e predicare. Ottenuta la licentia, il trapasso al magistero mediante atti più che altro onorifici (dispute, resoconto, ecc.) era facile. Egidio probabilmente era già bacccalaureus formatus al tempo della condanna di Stefano Tempier, perché diversamente non avrebbe il Papa disposto che gli si conferisse subito il più alto grado accademico. Noi possiamo supporre che la curia vescovile di Parigi si sia affrettata ad eseguire le disposizioni pontificie e che il filosofo agostiniano tornato in Francia durante l'estate del 1285, abbia ottenuto il magistero nell'ottobre dello stesso anno, nel mese, cioè, in cui, secondo le consuetudini di allora, si inagurava il nuovo corso scolastico e si iscrivevano gli aspiranti al dottorato nel gruppo dei maestri, qualora avessero superato felicemente le prove richieste. Egidio Romano fondò nell'Ordine una fiorente scuola fìlosofica, che vanta rappresentanti come Giacomo da Viterbo, Gerardo da Siena, Agostino Trionfo, Tommaso da Trasburgo, Alberto da Padova, Alessandro da S. Elpidio. Gregorio da Rimini (+1358) tentò di staccare l'indirizzo scientifico dell'Ordine dalla speculativa paritatetico-tomista e di avviarlo verso le concezioni [Pag. 37] filosofiche-teologiche di Occam, alle quali aggiungeva molte proprie teorie originali. Le due correnti intellettuali, quella di Egidio e quella di Gregorio, vissero nell'Ordine una vicino all'altra, fino alla metà del secolo XV. A Parigi Egidio fu chiamato "doctor fundatissimus", e l'appellativo antonomastico che lo pone vicino ai più grandi dottori dell'epoca, gli fu conservato dai trattatisti. Nel 1290 egli intervenne al capitolo generale di Ratisbona (63) e vi spiegò una grande attività, almeno riguardo alle ordinanze che regolavano gli studi. Una disposizione presa dai confratelli gli concedeva la facoltà di chiamare nella capitale francese qualsiasi baccelliere dell'Ordine a leggervi sentenze. E nel decreto si dichiarava che il privilegio dovesse intendersi esclusivamente conferito ad Egidio e non passasse quindi per consuetudine ai suoi successori nell'Università (64). [Pag. 38] Due anni dopo, nel capitolo di Roma, fu eletto a pieni suffragi (unanimiter et concorditer dicono gli antichi Regesti) Priore Generale degli Agostiniani (65). Benchè scarseggino le memorie del suo governo, possiamo supporre che non deludesse le speranze in lui risposte dagli Eremitani. Dovette subito iniziare le pratiche per avere in dono dalla corte di Francia il convento degli ex-frati del Sacco che fu poi conceduto, come abbiamo già detto, nell'aprile del 1293 da Filippo il Bello. In quell'anno egli si recò con tutta probabilità a Parigi per prendere personalmente la consegna della magnifica dimora e provvedere ai restauri. Vi era certamente alcuni mesi dopo, perchè i Padri capitolari del Lazio, radunati a Veroli, nel marzo del 1294 mandavano un cursore nella capitale di Francia per ragguagliarlo dell'elezione del Provinciale e chiedergli che la confermasse (66). Il triennio del suo generalato volgeva ormai alla fine, quando Bonifacio, salito da appena tre [Pag. 39] mesi al soglio pontificio, lo nominava con bolla del 25 aprile 1295, arcivescovo di Bourges (67). [Pag. 40-41] Questo arcivescovado aveva una assai estesa giurisdizione. Dava il diritto di fregiarsi del titolo di primate di Aquitania con giurisdizione di patriarca sopra le sedi arcivescovili di Narbonne, Auch, Bordeaux, Tolosa ed Alby, e di metropolita sui vescovati di Clermont, Limoges, Le Puy, Iulle e Saint Flour. Se vogliam credere al Moroni, la rendita della diocesi ammontava a più di trenta mila lire (68). La scelta di Egidio ad una sede così importante non fu veduta di buon occhio da tutti i francesi, tanto più che Celestino V elevando Simone di Beaulieu (de Belloloco) alla porpora cardinalizia [Pag. 42] e creandolo vescovo di Palestrina, aveva designato a succedergli, come si ricava dalla bolla di Bonifacio, Giovanni di Savigny (de Savigneyo). Furono inoltrati reclami al collegio dei cardinali, ma, in concistoro, Matteo di Acquasparta difese l'operato di Bonifacio VIII. "Non potest rex (Philippus), egli disse, conqueri, quod extranei instituantur in regno suo... vos scitis, qualis clericus est, ipse est magister in theologia, et fuit nutritus et educatus in regno illo" (69). Un'eco delle voci malevoli che dovettero circolare in Francia a proposito di questa elezione, l'abbiamo nel "Chronicon aulae regiae", attribuito dal Lorenz a Pietro Zittau, professo cistercense, contemporaneo di Egidio (70). Narra dunque l'autore di questa cronica che il dottore agostiniano, dopo aver sostenuto dalla cattedra l'invalidità dell'elezione di Papa Gaetani, mentre viveva ancora il predecessore Celestino, in seguito, cambiato parere, avrebbe conchiuso, non sillogisticamente, ma per l'offerta del vescovado, che Bonifazio era vero Pontefice (71). [Pag. 43] A tanti secoli di distanza non possiamo del tutto sceverare il vero dal falso in queste notizie. Non è improbabile che una ragione di gratitudine per avere Egidio pubblicato in sua difesa il De Renunciatione Papae muovesse l'animo del Papa nel conferirgli l'alta dignità ecclesiastica. Ma non ci sembra rispondente al vero l'asserzione del cronista medioevale che il professore parigino avesse combattuto l'elevazione di Bonifacio al soglio pontificio. Tra il Gaetani cardinale ed Egidio correvano rapporti di amicizia (72) ed inoltre quest'ultimo aveva da due anni abbandonato l'insegnamento [Pag. 44] nell'Università a causa della sua elezione a Generale dell'Ordine e non poteva quindi sostenere alcuna tesi dalla cattedra. Il novello Arcivescovo non si recò subito nella sua diocesi, ma volle intervenire al capitolo celebrato in quell'anno 1295 a Siena, nel quale Simone di Pistoia fu designato a succedergli nella carica di supremo moderatore dell'Ordine. In questa occasione Egidio sostenne disptute generali de quodlibet con Pietro da Roma, lettore, e Angelo da Camerino maestro con Gregorio da Lucca, lettore (73). Questa consuetudine di tenere discussioni filosofiche nei capitoli generali si mantenne lungo tempo nell'Ordine. Terminato il capitolo di Siena, Egidio si recò in Francia a prender possesso della sede (74), ma tornò ben presto a Roma e vi si trattenne alcuni anni. Abbiamo lettere di Bonifazio VIII che ci [Pag. 45] offrono elementi per determinare la durata della sua assenza da Bourges. Nel luglio del 1296, trovandosi presso la S. Sede, egli istituisce, con licenza del Papa, i vicari che devono visitare in sua vece la diocsesi (75). Nel marzo 1297 impetra a viva voce dal Sommo Pontefice il permesso di conferire a due persone idonee la facoltà di esercitare l'ufficio del tabellionato (76). Il 23 giugno del medesimo anno il Papa gli permette, a causa della sua dimora presso la Sede apostolica, di affidare ad alcuni chierici l'incarico di riconsacrare i cimiteri e le chiese violate mentre egli era lontano dalla diocesi, purchè da lui o da altro vescovo fosse l'acqua solennemente benedetta (77). Lo stesso giorno con altro decreto pontificio sono nominati i vicari visitatori della diocesi di Bourges (78). Nell'agosto del 1299 Egidio era ancora in Roma, ma in procinto di far ritorno alla propria sede. Lo apprendiamo da una lettera di Bonifacio in data 1° agosto, nella quale il Papa dispensa il nostro arcivescovo dal visitare personalmente la sua provincia ecclesiastica, per un biennio dopo il suo ritorno in Francia (79). Nelle tavole [Pag. 46] di Alby è poi ricordato che in quell'anno Egidio, ottemperando agli ordini regii, indisse ai suoi suffraganei di celebrare la festa di S. Luigi re il giorno appresso a quella di S. Bartolomeo (80). I documenti pontifici citati contengono espressioni lusinghiere per l'arcivescovo di Bourges. Le lettere, ad esempio CCLII e CCLIII, cominciano con le parole: "Personam tuam quam gratiarum Dominus thesauro magnae scientiae aliisque virtutis titulis multipliciter illustravit... Dono scientiae praeditus excellentis, multarumque virtutum titulis insignitus, sic te reddis ex conversatione tua placida nobis gratum....". Nel 1301 il Papa, accordando altre minori concessioni, così inizia la lettera CLXXVII (anno settimo del suo pontificato): "Personam tuam erga nos et Romanam Ecclesiam devotione praecipua refulgentem favoris apostolici plenitudine prosequentes, libenter illam specialibus gratiis honoramus". Ed Egidio dal canto suo non tralascerà occasione di testimoniare al Papa la sua gratitudine, sino ad indirizzargli quel suo De gratiarum actione ad Bonifacium VIII.um, che, registrato fra i suoi scritti da parecchi autori, non è a noi pervenuto. Relazioni dunque di affettuosa amicizia [Pag. 47] devevano correre tra il fiero Pontefice e il grande filosofo. Ma non bastano questi rapporti per spiegare la lunga permanenza dell'arcivescovo di Bourges a Roma, proprio quando sulle sue spalle gravava il compito di amministrare una vasta provincia ecclesiastica. Probabilmente l'antico professore di Parigi, lo scrittore competente di politica e di diritto ecclesiastico, esperto conoscitore della corte francese, sarà stato ai fianchi del Gaetani per consigliarlo in quegli anni avventurosi del suo pontificato. Qualche sostegno alla nostra supposizione lo troviamo in una bolla di Bonifazio del novembre 1297. Il Papa che aveva già degradato i cardinali Giacomo e Pietro Colonna, autori del violento libello affisso per tutta Roma in cui si accusava di simonia il Gaetani e s'impugnava la validità del rifiuto di Celestino V, lancia la scomunica contro chiunque osasse per l'avvenire ritenerli ancora insigniti della porpora cardinalizia, o che li investisse di nuovo di questa dignità, o, peggio ancora, desse loro il voto nei conclavi per l'elezione dei Romani Pontefici. "Perchè, si diceva nel documento, invano procurammo di ridurre a migliori consigli i due colpevoli, invano aspettammo che si piegassero ad ubbidire ai nostri decreti, come pure avevano promesso di fare a persone degne di fede, invano demmo mandato al vescovo di Tivoli, all'arcivescovo di Bourges, e a Pandolfo Savelli, cittadino Romano, di accoglierli se si [Pag. 48] fossero sottomessi" (81). In questo documento fra i designati a trattare con i Colonna ribelli, è dunque compreso anche Egidio che molti vogliono della stessa famiglia. Questa scelta può essere un segno della sua partecipazione alla politica papale, o per lo meno una prova che il Papa intendesse giovarsi dell'opera sua. Dopo la morte di Bonifazio VIII e il breve governo di Benedetto XI, giorni men lieti sopravvennero per Egidio Romano, quando sul soglio di Pietro ascese Bertrando de Got, arcivescovo di Bordeaux, che assunse il nome di Clemente V e si mostrò in tutti gli atti del suo pontificato ligio a Filippo il Bello. Il novello vicario di Cristo, appena eletto, sottrasse dalla giurisdizione di Bourges l'arcivescovado che egli lasciava, e, quasi a far sentire la sua superiorità su Egidio, stato suo primate, avviandosi da Lione deve aveva ricevuta la consacrazione, a Bordeaux, passò per Mâcon, Bourges e Limoges, fermandosi ad ogni chiesa, ad ogni [Pag. 49] abbazia con un seguito straordinario di familiari e di satelliti imponendo e tollerando che s'imponessero gravose esazioni (82). Né basta, che non essendosi Egidio regolarmente recato ad limina apostolorum, lo condannò all'ammenda di 300 lire di Tours, come si ricava da una memoria conservata nell'archivio vescovile di Bourges (83). Di guisa che se vogliamo credere al Sammartano, il primate di Aquitania fu ridotto a tali strettezze, da essere costretto, come un semplice canonico, a recarsi ogni giorno all'ufficiatura della Metropolitana per ricevere la quotidiana distribuzione (84). Pochi documenti ci ricordano in questi anni la sua attività. Il suo nome figura fra i maestri della facoltà teologica incaricati di esaminare, insieme al vescovo di Amiens certe proposizioni di Fr. Giovanni di Parigi, relative all'Eucarestia. Il dotto Domenicano fu condannato e gli fu tolta la licenza di insegnare. Egli volle appellarsene a Roma, ma la morte lo incolse (85). Nel 1311 intervenne Egidio (86) al quindicesimo concilio ecumenico convocato a Vienna (Delfinato) da Clemente V. Il Re di Francia esigeva che il Pontefice condannasse apertamente la memoria di Bonifazio VIII e abolisse l'Ordine dei Templari. [Pag. 50] Il sinodo soppresse i Cavalieri Templari, ma non volle pronunziare condanna contro la memoria del fiero nemico di Filippo il Bello. Le decisioni prese dall'assemblea erano consone ai sentimenti dell'arcivescovo di Bourges che forse vi sostenne un ruolo non indifferente. Perchè egli era stato l'amico devoto del grande pontefice scomparso e quindi dovette difenderne la memoria, e, d'altra parte, nel "Contra exemptos" si era mostrato avverso all'Ordine abolito. Ottenne intanto per gli Agostiniani la casa che i Templari possedevano a Bourges. L'anno appresso indisse un sinodo provinciale nella sua sede, nel quale si trattò del costume del clero (87). E probabilmente ne convocò un altro nel 1315 perchè abbiamo notizia che egli accolse in quell'anno benevolmente l'abate di Montauban e Pietro di Nogaret venuti a scusare l'assenza del vescovo di Alby dal sinodo di Bourges (88), che non può essere quello del 1312, altrimenti non si comprenderebbe come l'interessato avesse atteso tre anni per presentare le sue scuse. Ma erano questi ormai gli ultimi bagliori di un'attività che si spegneva. Gli anni, le fatiche e da ultimo il vivo dolore di vedere scosso, [Pag. 51] dopo l'insulto di Anagni, il potere politico della Chiesa da lui tanto caldeggiato, fiaccarono la sua fibra robusta. Presentì a tempo la sua fine e volle stendere, fin dal 29 marzo 1315, il suo testamento nel palazzo vescovile (89). Al convento di Parigi, delle cui sostanze era stato nutrito nella giovinezza, lasciò la propria casa di S. Martino di Campiano (diocesi di Soana e Petigliano). Con un nuovo atto, tre giorni innanzi di morire, donava agli stessi Eremitani di Parigi la ricca libreria che possedeva nel palazzo arcivescovile e nel monastero di Bourges (90). Aggiungono vari biografi che gli arredi e vasi sacri della sua cappella furono ereditati parte dalla chiesa agostiniana [Pag. 52] della sua diocesi, parte da quella di S. Trifone in Roma, oggi chiamata di S. Agostino (91). [Pag. 53] Finalmente a dì 22 dicembre 1316, trovandosi in Avignone, nel monastero che vi possedevano gli Eremitani, compì i suoi giorni terreni. Tumulato in questa città fu poi, come aveva disposto, trasportato a Parigi (92). I confratelli della capitale di Francia innalzarono alla sua memoria un grandioso monumento e v'iscrissero il seguente epitaffio: HIC IACET AULA MORUM VITAE MUNDITIA -ARCHI- PHILOSOPHIAE ARISTOTELIS PERSPICACISSIMUS COMMENTATOR - CLAVIS ET DOCTOR THEOLOGIAE LUX IN LUCEM REDUCENS DUBIA-FR. AEGIDIUS DE ROMA ORD. FRATRUM EREMIT. S. AUGUSTINI- ARCHIEPISCOPUS BITURICENSIS QUI OBIIT - ANNO D. MCCCXVI DIE XXII MENSIS DECEMBRIS. [Pag. 54] Egidio fu un campione della filosofia medioevale. La sua produttività meravigliosa ricorda i tempi di Alberto Magno e di Tommaso. Il catalogo che stabilisce il prezzo dei libri nell'Università parigina contiene dodici suoi scritti teologici, e quattordici filosofici (93). Un'accurata bibliografia di Egidio fu pubblicata alcuni anni or sono da Boffito (94). Di ben trentotto opere del grande agostiniano si conoscono edizioni e manoscritti, ed altre trentasette opere inedite gli sono attribuite. A noi sembra veritiero il giudizio del Madonnet che Egidio occupi il primo posto fra i teologi della fine del 13° secolo (95), ma non possiamo sottoscrivere, senza riserve, l'altra opinione dello stesso scrittore sul pensiero filosofico del dottore eremitano "vero tomista qua e là proclive alquanto all'eclettismo, ma molto più in apparenza che in realtà" (96). Pure ammettendo la grande influenza esercitata su lui da s. Tommaso, non si può negare che spesso mostra una grande indipendenza di giudizio e vedute originali. In fondo, sebbene simpatizzante per il tomismo, egli è un vero eclettico. Daremo [Pag. 55] una prova di questa asserzione nell'analisi che in seguito faremo dei suoi trattati politici. Dobbiamo ora, per completare i cenni biografici di questo insigne personaggio, accennare alle sue qualità morali. Gli storiografi dell'Ordine concordemente lodano la severità dei suoi costumi, l'imparzialità dei suoi giudizi, la grande sua umiltà. Molti cronisti non esitano ad appellarlo beato. Nell'episodio della sua polemica con il Tempier emergono alcune qualità del suo carattere. Il giovane baccelliere di Parigi fu certamente animato da ragioni ideali nella difesa così energica di Tommaso di Aquino. Egli poteva prevedere che la polemica gli avrebbe fruttato soltanto l'aspro antagonismo del Tempier e di quasi tutta la facoltà teologica, eppure non si ritrasse dalla lotta. Quando egli afferma di essere indotto soltanto dall'amore della verità a scrivere il suo trattato Contra gradus et pluralitates formarum merita tutta la nostra fede. Qualche volta egli però si lascia trascinare da un linguaggio non misurato, che rivela in lui un carattere violento che non sempre poteva e sapeva frenare. Non possiamo però dedurne che lo muovesse l'odio contro i suoi avversari, ma piuttosto che lo animasse l'amore per le dottrine che difendeva. Si rimane, perciò sorpresi dinanzi alla sua ritrattazione che non fu sincera, perchè nelle opere posteriori mostra chiaramente la sua preferenza per le teorie condannate. Ma non dobbiamo giudicarlo con troppa severità. [Pag. 55] Giovane di grandi doti, egli era il primo agostiniano inviato a Parigi per ricevere un'educazione accademica. Il suo allontanamento dall'Università e quindi l'impossibilità di ottenere un seggio magistrale fu per i suoi Superiori e per il Sommo Pontefice, cui stava tanto a cuore lo sviluppo materiale e intellettuale del giovane ordine, un'amara delusione. A richiesta di Onorio IV, Egidio sottoscrisse la nota lettera di sottomissione. Gli storici dell'Ordine hanno molto lodato l'antico confratello, considerando il suo un atto di umiltà e di rassegnazione. Senza voler contrastare al giudizio unanime dei biografi di Egidio, non si deve dimenticare che a determinare il grande filosofo alla penosa ritrattazione influirono con le loro sollecitazioni il Papa e i suoi superiori.
NOTE
(1)
DOM. ANT. GANDOLFUS, Dissertatio historica de 200 celeberrimis augustinianis scriptoribus. Romae, typ. Buagni, 1704, pag. 23.(2)
GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medio Evo. Roma, Soc. Ed. Nazion. 1901 - 2, vol. 3., pag. 166.(3)
LUIGI TORELLI, Secoli Agostiniani. Bologna, Vaglierini poi Monti 1659-1686, t. V, pag. 344.(4)
GIUS. UGO OXILIA E GIUSEPPE BOFFITO, Un trattato inedito di Egidio Colonna. Firenze, Successori B. Seeber, pag. V.(5)
TURNER, Storia della filosofia, Trad. di G. Oliosi. Verona, Gurisatti, 1906, pag. 343.(6)
DENIFLE, Chartularium Universitatis Paris. I, pag. 79.(7)
Liber qui dicitur Vitas fratrum compositus per B. fratrem JORDANUM DE SAXONIA ordinis fratrum Eremitarum S. Augustini, Romae apud Joannem Martinellum, 1587, lib. II. c. XXII, pag. 169: "Post B. Augustinum inter omnes hujus Religionis professores, in quantum nos reminiscimur, et ad nostre generationis notitiam potuit pervenire, primus doctor in sacra Theologia fuit Fr. Egidius Romanus de nobili genere coluniensium".(8)
Chronica Ord. Eremit. S. Augustini, Romae 1481.(9)
NICOLA MATTIOLI, Studio Critico sopra Egidio Romano Colonna. Roma, Tipogr. della Pace, 1896, pag. 109.(10)
Supplementum Chronicarum, Venetiis, 1492, f. 203. Aegidius Romanus Ord. Eremit. S. Augustini ... ex illustri Columnensium Romanorum Familia ortus"..(11)
TIRABOSCHI, Storia della Letterat. ital., Milano, Bettoni, 1833, vol. 2°, pag. 64.(12)
POMPEO LITTA, Famiglie celebri italiane, ediz. unica, fam. Colonna, riportata anche l'albero genealogico di Egidio.(13)
GREGOROVIUS, op. cit. l. c. e pag. 119.(14)
Op. cit. pag. 20: Aegidius natus est ex insigni Prosapia Columnia, quidquid obmurmuret aliquis non audiendus. Nam Giordanus Saxo testis quasi coaevus et plures alii hanc difficultatem explodunt.(15)
Cfr. Analecta Aug., vol. IX, pagg. 71 sgg.(16)
Op. cit., pag. cit.: "in aetate adolescentuli ingressus ordinem a parentibus et amicis saeculi blandimentis pluribus redire ad saeculum fuit allectus: sed ipse maluit Deo in suscepta Religione servire, quam parentibus et mundi amatoribus obedire".(17)
Histoire littéraire de la France, tomo XXX, pag. 422.(18)
GIORDANO DI SASSONIA, op. cit. l. cit.(19)
Cfr. Constitutiones Ord. Eremit. S. Aug. Ratisbonenses nuncupatae. Ed. Venetiis, 1508, c. XXXVI.(20)
IOINVILLE, Vie de S. Louis. Ed. Michaud, pag. 322.(21)
DENIFLE, I, pag. 405.(22)
Arch. Nat. Paris, L. 253, n. 267 e 268.(23)
DENIFLE, I, 637.(24)
Sembra però a noi che l'illustre scrittore cada in qualche inesattezza. Egli dice: "In arch. nat. Paris. l. c. (L. 921), exstant insuper quatuor chartae origina1es (tres earum an. 1285, mense Novembris, et una an. 1286, Januar. 3) tractantes de peciis terrae et quadam domo in Cardineto et in vico S. Victoris, quas abbas et conventus S. Victoris fratri Iuvenali de Narnia ad opus ipsorum fratrum Parisius studentiun et usus totius Ordinis sub certis conditionibus vendiderunt. Tres harum chartarum inveniuntur etiam insertae epistolis Honorii IV". Ma verificato l'epistolario di Onorio IV non trovammo inseriti fra le sue lettere che due atti in data novembre, ed uno in data agosto, che è poi il contratto del capitolo di Parigi, riportato con le stesse parole del Chartularium. Il quarto documento fu redatto, come afferma Denifle, nel gennaio del 1286, quindi il terzo atto scritto nel novembre 1285 non è stato ancora bene esaminato ed il suo tenore ci è sconosciuto. L'Empoli menziona pure, un contratto che Giovenale da Narni fece con una certa Agnese vedova di Oberto per l'acquisto in enfiteusi di un altro appezzamento di terra nella località sopranominata. "Quodam arpentum terrae .... haeredum huius Auberti dicti ad Fabas, ab huius vidua Agnete Ordini vendita, sita etiam erat in Cardineto. (Bullariam Ordinis, pag. 160, col. I). Esplorando meglio i documenti ricordati dal Denifle, si potrebbe forse trovare l'originale di questo atto.(25)
Cfr. ANALECTA AUG., II, pag. 272. Capitulum provinciale loci Sancti Nicolai de Stricto.(26)
EMPOLI, Op. cit., pag. 155, col. 1.(27)
In un documento riferente un privilegio concesso dal vescovo di Parigi ai fondatori dell'istituto dei buoni fanciulli, si legge: "ut in domo sua, quam de novo edificare Parisius inceperunt, possint construere oratorium salvo jure presbyteri parrochialis Sancti Nicolai de Cardineto, intra cuius metas parrocchie sita est dicta domus". Cfr. DENIFLE, I, pag. 371.(28)
Capitulum Generale Ratispone in Alamannia: "Item Diffinimus quod de pecunia habenda de possesionibus vendendis quarta pars detur pro emptione loci bonorum puerorum pro subsidio loci parisiensis". Cfr. ANACLETA AUG., vol. II, pag. 292.(29)
Lettera di Filippo il Bello in data aprile 1293. Cfr. DENIFLE, I, 638.(30)
EMPOLI, Op. cit., pag. 42.(31)
Reg. Bonifaci VIII, an. VIII, p. 13, fol. 279.(32)
Arch. Nat. Paris, L. 921.(34)
EMPOLI, Bullarium Ordinis, pag. 18.(35)
P. FERET, La faculté de theologie de Paris. Paris, 1896, Tome III, pag. 477-517.(36)
ANALECTA.AUG., Vol. II, pag. 275: "Statuimus et ordinamus ut jjjjor Studia Generalia ad minus sint in Ytalia, scilicet, in Curia Romana, Bononie, Padue et Neapoli".(37)
Ibidem: "Ad horum quodlibet quelibet provincia ordinis mictat (sic) studentem unum sufficientem et ydoneum". Negli Analecta Augustiniana degli anni 1907, 1908, 1909, 1910, 1911, 1912, Vol. II, III, IV, il R.mo P. E. Esteban attuale Priore Generale O. E. S. A. pubblicò un Codice conservato nell'Arhivio dell'Ordine, dal titolo: "Capitula Generalia antiqua ab anno 1274 ad an. 1339, sen Registrum Capitulorum Generalium et Provincialium Romanae Provinciae". Questo Codice membranaceo del secolo XIV, fornì preziose notizie al Garampi, le cui schede consultò poi il Denifle, stimando perduto il prezioso manoscritto. Anche oggi rimane la fonte più importante, sebbene incompleta della storia degli Eremitani nei primi decenni dopo la Grande Unione, e da esso abbiamo tratto fatti e date importantissime per la biografia dei nostri scrittori.(38)
ANACLETA AUG., Vol. II, pag. 275: "Intendimus enim quod illi qui pro studentibus ad predicta studia mandabuntur, in Generali Capitulo examinari debeant, vel coram Generali Priore"(39)
Constitutiones Ord. S. Augustini Ratisponses nuncupatae. Edit. Venetiis, 1508, c. XXXVI : "Quaelibet provincia nostre religionis semper unum fratrem studentem Parisius habeat in studio theologie".(40)
Ibidem.(41)
DENIFLE, II, 692.(42)
Questo privilegio si rileva dal fatto che cinque anni di dimora a Parigi sono prescritti agli studenti dell'Ordine dalle antiche Costituzioni e dai capitoli regionali e generali fin dall'anno 1273.(43)
Livre II des contracts du grand convent de Paris de l'Ordre des Frères Hermites de S. Augustin, n. 33: "Huict docteurs en sainte theologie de la facultè de Paris confirment et ratifient ce que avait estè accordè aux Augustinus de temps que F. Gilles de Rome, archeveque de Bourges, estoit encore de la facultè de Paris, scavoir est que les bacheliers de l'Ordre Saint Augustin ne seroyent obligés de lire qu'un cours du Maistre des Sentences sans estre tenus de lire un cours de philosophie". (Arch. nat. Paris, S. 3460, f. 5). Cfr. DENIFLE, II, pag. 172(44)
Ibid. f. 23: " Iean (Ioannes de Murro, Ord. Min.), évêque de Porte et de Saint Ruffine, le 30 Iuin 1310, à la requisition de F. Giles de Rome, archevêque de Bourges, escrit d'Avignon à l'Université de Paris qu'estant bachelier il avait ouy dire àux maitres de Paris, lorsqu'ils tratoient qu'il falloit avoir demeuré un certain temps dans Paris pour lire les Sentences, que c'estoit une chose indigne que les religieux Augustins qui avoyent enseigné en d'autres convents, après avoir demeuré quatre ou cinq ans dans Paris, revenant à Paris, feussent obligés d'y demeurer autant que les seculiers, mais qu'il falloit compter les temps qu'ils avoyent demeuré aux autres convents, à quoy tous les maistres consentirent". Cfr. DENIFLE, ibid. pag. 144.(45)
Constitutiones Ratisponenses nuncupatae capitolo XXXVI, fol.32: "Quilibet provincia nostre religionis semper unum fratrem studentem Parisius habeat in studio theologiae, cuius electio ad provincialem vel vicarium generalem et diffinitores provincialis capituli pertinebit qui per quinquennium studeat ibi et in decem libris turonensium in nativitate virginis gloriosae ipsa provincia provideat annuatim... Idem studens, antequam de Parisius recedat, habeat ab ipsa provincia quadraginta libras turonensium pro libris".(46)
ANALECTA AUG., Vol. II, pag. 292. Capitulum Generale Ratispone in Alemannia (1290): "Diffinimus et statuimus observandum quod quelibet provincia nostri ordinis solvat pro provisione baccellariorum ordinis Parisius existentium et succcessorum XX S. turon. qui inter eos equaliter dividantur annuatim, ita, tamen quod Baccellariorurn (sic) quaternariurn numerum non excedant". Questa disposizione fu poi revocata nel capitalo generale di Siena del 1295 (Ibid. p. 371)(47)
ANALECTA AUG., Ibidem, pag. 295.(48)
Ibidem, pag. 292. Cfr. anche le Costituzioni antiche, c. XXXVII, f. 33: "Priores locorum quae in magnis et famosis terris sita sunt, studeant omnino in sacristia vel in aliqua parte dormitorii habere bonun et securum armarium in quo reponantur libri qui non sunt deputati ad continuum usum chori et officii ecclesiae. Et studeant tenere pro possibilitatae loci unum vel plures scriptores qui scribant ad opus conventus libros ad usum lectorum, et praedicatorum studentium necessarios. Et tales scriptores stent in domibus iuxta portam, et fratibus nulla hora se conjungant et ad eos nullus sine licentia prioris vadat. Et alium scriptorem in loco sine licentia prioris generalis nemo teneat".(49)
Guilelmus de Thoco Ord. FF. Praedicatorurn ita inquit: "Quidam magister fr. Aegidius, qui postmodum fuit Archiepiscopus Bituricensis, qui tredecim annis istum Magistrum (D. Thomam) audierat, de praedicto doctore dixit, deridendo insufficientiam correptorum. In hoc mirabili et digno memorie Doctore fr. Thoma de Aquino fuit sui subtiliatis ingenii et certitudinis iudicii manifestum indicium, quod opiniones novas et rationes quas scripsit Bacellarius, Magister effectus, paucis exceptis nec docendo nec scribendo mutavit: nos autem moderni temporis, sicut incerti et dubii iudicii, opiniones quas aliquando tenuimus, in contrarium arguti modico argumento mutamus". Acta Sanctorum, In vita B. Thomae, Martii, tom. I, pag. 672, n.41.(50)
Nei capitoli di Cori (maggio del 1283), di Genazzano (ottobre del 1284), di Tuscania (maggio del 1285).(51)
Cito fra gli altri NICOLA MATTIOLI op. cit., pagg. 14-15; UGO OXILIA e GIUSEPPE BOFFITTO, op. cit., pag. XIV, che attingono però alle cronache degli storici dell'Ordine.(52)
Venerabili fratri Ranulpho episcopo Parisiensi. Licet dilectus filius frater Aegidius Romanus de ordine fratrum Eremitarum S. Augustini, olim Parisiis vacans studio, aliqua, sicut intelleximus, dixerit et redegerit in scripturam, quae bonae memoriae Sthefanus Parisiensis episcopus praedecessor tuus per seipsum examinans et per cancellarium Parisiensem eius temporis, ac per alios theologicae facultatis magistros examinari faciens, censuit revocanda, et ea minime revocarit, quin potius variis rationibus nisus fuerit confirmare: nuper tamen apud Sedem Apostolicam constitutus humiliter obtulit se paratum revocanda quae dixerat sive scripserat, revocare pro nostrae arbitrio voluntatis. Nos vero hujusmodi eius oblationem humilem acceptantes, et moti spiritu compassionis ad ipsum, quia decentius et utilius reputavimus, ut praemissa ibi consultius revocentur, ubi dicta et scripta inconsulte dicuntur, ipsum ad te duximus remittendum, fraternitati tuae, per apostolica scripta mandantes, quatenus dilecto filio magistro Nicolao Parisiensi cancellario, et omnibus aliis magistris theologicae facultatis, Parisiis commorantibus, tam actu in eadem facultate regentibus quam etiam non regentibus, ad hoc specialiter convocatis, procedens de ipsorum consilio in praedictis, dicto fratre coram omnibus eis revocante, quae de dictis contra ipsum una cum maiori parte magistrorum eorumdem iudicaveris revocanda, et specialiter quae dictus praedecessor tuus mandavit, ut praedicitur, revocari, circa licentiam et expeditionem ipsius auctoritate nostra provideas, prout secundum Deum fidei catholicae, ac Parisiensis studii utilitati de consensu majoris partis magistrorum ipsorum videris expedire. Datum Romae apud S. Petrum Kal. junii anno I". Reg. Vat. Honorii IV, anno I, epist. 33, fol. 12. Cfr. DENIFLE, I, 633.(53)
P. AEMILIUS: De rebus gestis Francorum, Parisiis, Vascosamus,1539, c. 164 v.(54)
ANACLETA AUG., II, pag. 275.(55)
Chartularium, II, pag. 12.(56)
Chartularium, II, pag. 28.(57)
Ibidem, pag. 32.(58)
LOUIS CREVIER, Histoire de l'Université de Paris. Paris, 1761, t. II, p. 106; Fleury: Storia ecclesiastica, traduz. di C. de Firmian, Siena, Pazzini 1777 - 92, t. XXIX, pag, 366; Lajard, Hist. littér. de la France, t. XXX, pag. 422.(59)
Op. cit., t. II, pag. 10.(60)
F. EHRLE, Archiv. für Litteratur und Kirchengeschichte des mittelalters, I, pag. 391.(61)
DENIFLE, II, pag. 11.(62)
DENIFLE, II, pagg. 13-17.(63)
ANALECTA AUG., II, 297, Capitulum Generale de Ratispona: "Et fuit ibi similiter frater Egidius Romanus Sacre Theologie doctor, habens vocem electionis, et omnia sicut Unus Diffinitorum Provincie ordinis".(64)
ANALECTA AUG., pag. 296, Capitulum Generale Ratispone in Alamania: "Diffinimus et committimus auctoritatem fratri Egidio Romano, Magistro nostro, ut possit Baccellarios parisius ad legendum sententias vocare prout sibi pro bono ordinis videbitur expedire: quod facimus intuitu persone, ut hoc ad consequentiam non trahatur, ne propter hoc nullum ordini prejudicium generetur".(65)
IBID., Capitulum generale de Roma, pag. 339: "Et electus fuit per formam scrutinii privati Frater Egidius Romanus, Sacre Theologie Doctor sive profexor (sic), in Generalem Priorem Ordinis fratrum Heremitarum Sancti Augustini, Unanimiter et concorditer".(66)
IBID., Capitulum provinciale de Verulis, pag. 366: "Pro cursore qui iturus est Parisus pro confirmatione electi provincialis nostri, jjj floreni".(67)
"Ven. fratri Egidio archiepiscopo Bituricensi. Apostolatus officium quanquam insufficientibus meritis nobis commissum quo ecclesiarum omnium regimini presidemus, utiliter uxequi, adiuvante Domino, cupientes solliciti ac vigiles reddimur, et cum de ipsarum ecclesiarum regiminibus agitur committendis, quantum ab eo permittitur, cuius in terris vices gerimus, eis in pastores tales preficere studeamus, de quibus consideratis virtutibus desuper sibi datis presumimus verisimiliter et tenemus quod creditas sibi animas verbo scientie instruere valeant et exemplo et ex eorum studio loca que sue fuerint deputata custodie, spiritualium et temporalium grata suscipere debeant incrementa.Sane Bituricensis ecclesia per translationem venenabilis fratris nostri S. (Simonis de Belloloco), episcopi Prenestini olim archiepiscopi Bituricensis ad ecclesiam Prenestinam ex providentia sedis apostolice factam pastoris solatio destituta, licet frater Petrus de Murrone, tunc Celestinus Papa V predecessor noster, qui demum apostolatus regimine et officio sponte cessit, eidem Bituricensi ecclesie de dilecto filio magistro Iohanne de Savigneyo duxerit providendum, nos tamen postmodum ad apicem predicti apostolatus assumpti, provisionem eandem ex certis causis, non tamen vitio persone ipsius magistri Iohannis, de fratrum nostrorum consilio auctoritate apostolica irritantes, ordinationem ipsius ecclesie Bituricensis Sedi apostolice duximus specialiter reservandam, decernentes ex tunc irritum et inane, si secus super hoc scienter vel ignoranter contingeret attemptari, et tandem de ipsius ecclesie Bituricensis ordinatione celeri nec prolixioris vacationis exposita maneret incommodis, attente duximus cogitandum, et post vigilem quam ad ponendam ibidem approbatam ydoneamque personam apposuimus diligentiam, in te, tunc priorem generalem fratrum heremitarum ordinis sancti Augustini, quem virum utique preditum eminenti scientia litterarum, vite ac morum honestate decorum, discretionis et consilii maturitate conspicuum novimus, noster animus requievit. Proinde igitur tam gregi dominico quam ecclesie Bituricenci predicte intendentes salubriter providere, de ipsorum fratrum nostrorum consilio et apostolice potestatis plenitudine ipsi ecclesie Bituricensi te in Archiepiscopum prefecimus et pastorem, tibique per nos ipsos consecrationis munus duximus impendendum, et subsequenter palleum beati Petri sumptum, insigne videlicet pontificalis officii a te cum ea qua decet instantia postulatum tibi fecimus exhiberi. In illo qui dat gratias et largitur premia confidentes, quod eadem ecclesia Bituricensis per tue circumspectionis industriam a noxiis preservabitur et adversis, optatis quoque prosperitatis comodis spiritualiter et temporaliter proficiet ac honoris. Quocirca fraternitati tue per apostolica scripta mandamus quatenus impositum tibi onus a Domino suscipiens reverenter curam et administrationem ejusdem ecclesie Bituricensis sic diligenter geras et sollicite prosequaris, quod ecclesia ipsa gubernatori circumspecto et fructuoso administratori gaudeat se commissam et bone fame tue odor et laudabilibus tuis actibus latius diffundatur et preter benedictionis eterne premium benevolentie nostre gratiam plenius consequaris. Dat. Laterani Vjj Kal. Maii. Anno primo.
"In eodem modo dilectis filiis Capitulo ecclesie Bituricensis. "Apostolatus officium" etc. usque "proficiet ac honoris". "Quocirca Universitati vestre per apostolica scripta mandamus quatenus eidem Archiepiscopo tamquam patri et pastori animarum vestrarum humiliter intententes ac sibi exhibentes obedentiam et reverentiam debitam et devotam ipsius monita et mandata salubria curetis devote suscipere et efficaciter adimplere, alioquin sententiam quam idem Archiepiscopus rite tulerit in rebbelles ratam habebimus et faciemus, auctore Domino, usque ad satisfactionem condignam inviolabiliter observari". Dat. ut supra.
"In eodem modo dilectis filiis clero civitatis et diecesis Bituricensis usque in finem". Dat ut supra.
"In eodem modo ven. fratribus suffraganeis ecclesie Bituricensis" etc.
"In eodem modo dilectis filiis universis vasallis eccl. Bit." etc.
"In eodem modo dilectis filiis populo civitatis et diecesis Bitur." etc.
"In eodem modo Carissimo in Xto filio Phylippo Regi Francie illustri. An fovendum in caritatis visceribus ecclesiarum prelatos, ac eos precipue qui pontificali preminent dignitate, eo te fiducialius nostris precibus invitamus, quo in bonorum operum executione celsitudinis regalis affectum extimamus magis promptum et facilem invenire, maxime cum apud Dominum cuius prelati hujusmodi sunt ministri, retributionis eterne premium et apud homines laudis preconium tibi exinde acquirantur etc. Quocirca regalem excellentiam rogamus et hortamur attente, quatenus eidem archiepiscopo pro nostra et apostolice sedis reverentia Regalia eiusdem ecclesie Bituricensis, que per te vacationis eius tempore teneri dicuntur, sine qualibet difficultate restituens, alias ipsum et ecclesiam sibi commissam habeas propensius commendatos, ita quod idem Archiepiscopus tuo fultus auxilio, in commissa sibi cura pastoralis officii possit Deo propitio prosperari, ac tibi a Deo perennis vite premium et a nobis condigna proveniat actio gratiarum". Dat. ut supra.
Reg. Bonifatii VIII anno primo, in Arch. Vatic. 47, ep. LXX, fol. 17.
(68)
GAET. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, sotto Bourges. (Venezia, tip. Emiliana, vol. VI, 1840).(69)
PIERRE DUPUY, Hist. du differend entere le pape Boniface VIII et Philippe le Bel. Paris, 1655, t. II, pag. 76.(70)
V. OTTOKAR LORENZ: Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter seit der mitte des XIII Jahrhundert, Berlin, Hertz 1896, pag. 282.(71)
Nella parte II, c. I. del Chronicon è scritto: "Eodem anno, idest MCCCXVII (sic) dominus aegidius, natione Romanus, magister Theologiae Maximus, ordinis fratrum Heremitarum S. Augustini primo professus, post haec per papam Bonifacium Bituricensis Archiepiscupus et Primas factus, qui tam in Theologia, quam in Philosophia plurima conscripsit volumina: moriens transiit ex hac vita. Hic cum semel (ut dicitur) Parisius in cathedra quaestionem determinasset, quod videlicet Bonifacius VIII, adhuc Papa Celestino antecessore suo vivente, esse verus Papa non posset, per eundem Binifacium Archiepiscopatus ei exhibetur, quem tamquam a vero et legitimo Apostolico amplectitur et acceptat. Igitur sic sequitur conclusio, non syllogismo, sed cum Episcopio, Bonifacium esse Papam".(72)
Gli aveva dedicato il suo commento al De Causis, e, secondo vuole il Narducci, il Liber de moralitatibus corporum coelestium, elementorum, avium, arborum, sive plantarum et lapidum pretiosorum, saccheggiato poi dall'inglese Bartolomeo Glanville nel suo "Opus de rerum proprietatibus". L'opera di Egidio è contenuta nel codice dell'Angelica Q. 5. 26. (Cfr. E. NARDUCCI, Intorno ad una enciclopedia, finora sconosciuta di Egidio Colonna, romano, ed al plagio fattone dall'inglese Bartolomeo Glanville, in "Atti della R. Accademia dei Lincei", S. IV, vol. 1°, 1885, fasc. 4°, pagg. 67 e sgg.(73)
ANALECTA AUG. II, pagg. 367-368: (Capitu1um Generale "de Senis: "Et electus fuit ibi unanimiter et concorditer in Generalem Priorem ordinis nostri Frater Symon de Pistorio. Et fuit tunc ibi Venerabilis Pater frater Egidius Romanus, olim Generalis prior preteritus, et tunc factus Archiepiscopus Bituricensis novus, et fecit Generales disputationes de quolibet. Et frater P[etrus], lector de Roma, substinuit. "Item in eodem capitulo fuit frater Angelus de Camerino, Sacrae Theologiae novus professor, sive Magister, et fecit ibi similiter generales disputationes de quolibet, et sub eo substinuit frater Gregorius, lucanus lector".(74)
IBID., pag: 368: Et tunc postea ivit ad Archiepiscopatum suum primo.(75)
Regesti Bonifatii VIII in "Archivio Vat." epist., CCLII, fol. 62.(76)
IBID., epist. CXLIII, fol. 227. Ex Regest. tertii anni.(77)
Ex Regest. anni tertii, epist. CCVIII, fol. 242.(78)
IBID., l. c.(79)
Ex Regest. anni quinti, epist. CCXXXIX, fol 199.(80)
Ex Tab. episc. Alb. riportata dal Sammartano, Gallia christiana, tom. II, pag. 77.(81)
Arch. Vat. Reg. an. III, fol. 385: "...Laborantes namque intellectum dare ipsis (scilicet Jacobo et Petro de Columpna), errantibus, et mansuete instruere ne perirent, ipsos diutius duximus expectandos ut, sicut fide digno relatu nobis dabatur intelligi, pure et absolute ad nostra et ecclesiae praefatae mandata redirent, venerabilibus fratribus nostris I. Tusculano episcopo, et G. (Egidio Romano Ord. S. Aug.), Bituricensi Archiepiscopo ac dilecto filio nobili viro Pandulfo de Sabello, civi Romano, ad hoc ad ipsos specialiter destinatis, quae tandem facere contempserunt". Cfr. DIGARD, Le Registres..., T. I, c. 960, n. 2386.(82)
Contirinatio Chronic. Guillelmi de Nangis, tom. II, pag. 620.(83)
N. MATTIOLI, Op. cit. pag. 36.(84)
SAMMARTHANUS, Op. e. t. cit. col. 77A.(85)
DENIFLE, II, pag. 120.(86)
ARCH. VAT. Regest. 59 fol. 217v.(87)
SAMMARTHANUS, l. c.(88)
Ex tabulis episcop. Albiensis - cfr. la continuazione dell'opera del Sammartano fatta dai monaci di S. Mauro (Parisiis, ex Tip. Regia, 1785, t. XIII, pag. 233.(89)
Frater Aegidius, Bituricensis Achiepiscopus, Ordini fratrum Heremitarum S. Augustini et specialiter conventui Parisiensi "de cuis uberibus a puerita" nutritus fuit, "in quo", disponente Deo, adeo "profecit" quod inter fratres ejus Ordinis magisterium in sacra theologia primus Parisius obtinere meruit, memorato conventui dat, donat concedit cedit et quitat in perpetuum domum seu manerium suum Sancti Martini de Campiano constitutum in dioec. Soanensi, traditque ejius possessionem fratri Iohanni de Verduno, nomine dicti conventus recipienti. Actum Bituricis in domo archiepiscopali, die sabbati post Pascha resurrectionis Domini sive Die XXIX Martii, anno Domini millesimo trecentesimo quintodecimo, indictione tercia decima, apostolica Sede vacante, presentibus fratre Francisco de Metis, priore conventus Bituric. Ord. S. Augustini, fratre Radulpho de Ambianis dicti Ord. et fratre Hugutione de Florencia priore beate Marie de Busencesco testibus. 1315, Martii 29, Bituricis. Arch. Nat. Paris. S. 3634, n. 3. DENIFLE II, pag. 172.(90)
Ibid. S. 3634, n. 4.(91)
V. SAMMARTHANUS, Op. cit. pag. 78. Nel codice Cc 19 dell'archivio dell'Ordine è menzionata, narrandosi l'arrivo di Ludovico il Bavaro a Roma nel gennaio 1328 e la persecuzione mossa contro il clero rimasto fedele al papa Giovanni XXII, una cappella donata da Egidio alla chiesa di S. Trifone, di cui insieme al tesoro della sacristia vennero in possesso i fautori dell'imperatore scismatico. Ci sembra questa una conferma della notizia della donazione di arredi sacri fatta dal grande filosofo alla chiesa madre del suo Ordine. Riportiamo dell'interessante documento la parte che ci riguarda: Item, anno Domini M° CCC° XXVIII° de mense Ianuarii in die Epiphaniae supradictus Lodovycus de Bavaria intravit Romam et venit per maritimam Tuscie, deinde transiens per montem altum venit Tuscanellam, et de Tuscanella Viterbium, et de Viterbio Romam, ubi stragie facta, tam clericorum quam religiosorum, ad tantam insaniam devenerunt, ut adtentarent alium papam et alios cardinales facere, vivente sanctissimo papa Iohanne, qui fuerat in sede beati petri XIII vel XIIII annis. Et in adipapam [antipapam] fecerunt fratrem Petrum de Corvaria, de ordine fratrum minorum. Et ipse cardinales aliquos fecit ad modum vere ecclesie Romane, per omnia eam scimiando [simiae ad instar imitando], inter quos fecit cardinalem fratrem Nicolaum, monachum de Fabriano, qui fuerat de ordine nostro expulsus et ad carcerem perpetuo judicatus, secundum quod apparet in diffinitionibus capituli generalis Montispesulani celebrati et episcopum fecit de Racaneto fratrem Andream de Recaneto, de provincia Marchie ambo; qui supradictus frater Andreas per magistrum Alexandrum generalem fuerat Tuderti positus in carcere et expulsus ad provinciam Romanam, et veniens ad fratrem Iacobum Sassi, provincialem, compatiendo sibi eum benigne recepit et caritative ipsum ad suam petitionem Romam pro conventuali misit per IIII.or vel V annos ante quam caderet in supradicto errore. Qui supradictus frater Andreas de Racaneto jta gratiosus extitit omnibus fratribus Romanis, ac si esset de terra propria, in tantum quod absente fratre Iacobo Sassi provinciali, voluerunt fratres, qui erant tunc Rome, quod ipse frater Andreas esset unus de tribus fratribus Romanis, qui scirent ubi ascondebatur argentum, paramenta, libros et res alias conventus Sancti Triphonis, que omnia ascondebantur propter tyrannidem maximam, quam supradictus Lodovycus de Bavaria exercebat in clericos et religiosos; propter quam tyrannidem omnes fratres de Roma boni recesserunt de Urbe. Nam aliqui capti, aliqui carcerati, aliqui verberati et expoliati, et nonnulli turpiter et cum multo timore fugati, aliqui usque ad ostium cabie leonis ducti [sunt]; propter que omnia loca de Roma fuerunt totaliter a fratribus Romanis relicta. Ipse supradictus Andreas immediate dictis scismaticis excommunicatis adhesit, et totum thesaurum sacristiae Sancti Triphonis supradicto Nicolao, monacho de Fabriano, tradidit et capellam, quam frater Egydius, archiepiscopus bituricensis, conventui Sancti Triphonis dimiserat, acceperunt, que ascendebant ad valorem bene mille florenorum. ANALECTA AUG., IV, p. 70.(92)
GANDOLFUS, Op. Cit. p. 23.(93)
DENIFLE, II, pag. 108-109.(94)
G. BOFFITO, Saggio di Bibliografia Egidiana, Firenze L. S. Olscki 1911.(95)
MANDONNET, Revue des sciences philos. et theol., 4.enne année, Juillet 1910. La carrière scolaire de Gilles de Rome, pag. 497.(96)
IBIDEM, p. 499.
CAP. III
AGOSTINO TRIONFO
[Pag. 57]
Alla lotta sostenuta nel Medio Evo dai Papi per la supremazia politica del potere teocratico, oltre Egidio Romano, dettero, con i loro trattati, valide armi di offesa e difesa, due altri scrittori agostiniani, Giacomo da Viterbo e Agostino di Ancona. Di quest'ultimo poche notizie e inesatte tramandarono gli storiografi dell'Ordine (97). Nacque egli in Ancona, secondo i biografi, dalla nobile famiglia dei Trionfo nell'anno 1243. Sarebbe quindi coetaneo, e forse più anziano di Egidio, ma questa data, come proveremo, non è per noi ammissibile. Entrò giovanissimo nell'Ordine e, compiuti in patria gli studi di grammatica e di logica, fu inviato a Parigi per frequentarvi la facoltà teologica. Nella capitale francese salì, in rinomanza e ottenne i gradi accademici. Narrano gli storici [Pag. 58] che nel 1274, celebrandosi a Lione il 14° concilio ecumenico, essendo decesso per via, mentre vi si recava, Tommaso di Aquino, Gregorio IX lo abbia chiamato per sostituire il grande dottore. Da Lione si recò poscia a Padova, alla corte di Francesco Carrara per tenervi un corso di predicazione. Fece quindi ritorno ad Ancona sua patria, ma non vi soggiornò lungamente, perché si trasferì ben presto a Napoli, chiamato insistentemente da Carlo II che inviò anche una nave da guerra per trasportarlo e fargli onore. Nella capitale del mezzogiorno d'Italia, egli spiegò molta attività nel campo filosofico-letterario e nella politica, in qualità di consigliere è spesso legato dei sovrani di Napoli. Si adoperò anche a favore del suo Ordine, costruendo conventi specialmente nelle Calabrie. Infine, ricco di meriti e di anni, passò di questa vita nel 1328. Sul suo sepolcro i confratelli posero questa iscrizione: ANNO DOMINI MCCCXXVIII / DIE SECUNDA APRILIS / INDICTIONE XI OBIIT B. AUGUSTINUS TRIUNFUS / DE ANCONA / MAGISTER IN SACRA PAGINA / ORDINIS FRATRUM EREMITARUM S. AUGUSTINI / QUI VIXIT ANNOS LXXXV EDIDITQUE SUO ANGELICO INGENIO / XXXVI VOLUMINA LIBRORUM / SANCTUS IN VITA ET CLARUS IN SCIENTIA / UNDE OMNES DEBENT SEQUI / TALEM VIRUM QUI FUIT RELIGIONIS SPECULUM. [Pag. 59] Fin qui i biografi di Agostino di Ancona. E' compito oggi troppo arduo, se non impossibile, sceverare quanto di vero sia contenuto in queste notizie. Di sicuro possiamo dire che nel 1300 egli non era ancora maestro in S. Teologia, perché nel capitolo generale tenuto in quell'anno a Napoli dagli Agostiniani si stabili che egli si recasse a Parigi per leggervi le Sentenze (98). Doveva per conseguenza essere molto più giovane di quanto asseriscono i suoi biografi e l'epigrafe del suo sepolcro. In quale anno abbia poi conseguito il dottorato non lo sappiamo. Abbiamo però un documento pontificio in data 18 gennaio 1326, nel quale egli è appellato maestro da Giovanni XXII. Il Papa, forse per ricompensarlo dei trattati politici scritti in difesa della S. Sede, ordina che dal suo tesoriere gli siano dati cento forini d'oro ed in seguito un'annua pensione di dieci oncie di oro, affinchè possa con tutta tranquillità attendere ai suoi studi e pubblicare nuove opere, "pro scribendis libris" (99). Come scrittore, Agostino fu molto fecondo, ma una parte della sua produzione letteraria e scientifica [Pag. 60] rimase inedita. Le sue opere furono diligentemente registrate dai biografi, specialmente dal Gandolfi e dall'Ossinger nei loro vulumi sugli scrittori eremitani. Il primo ci assicura di aver fatto accurate ricerche prima di stenderne l'elenco. "Opera ipsius, quoad potero, exacte enunciabo, praecise ea, quae ubinam asserventur, mihi notum est" (100). Riportiamo perciò senz'altro il catalogo che di esse ci ha lasciato (101):I.
Summa de Potestate Ecclesiastica ad Iohannem XXII. Augustae Vindelicorum 1473. 4. Romae in Domo nobilis Viri Francisci de Cinquinis procurante meo Paolo Lulmeo S. Mariae de Populo Priore 1479. 4. Venetiis, expensis Octaviani Scoti 1487. 4. Romae cum Effigie vera Beati, ac vita edita a Summi Pont. Sacrista Augustino Fivizanio, Tipis Georgii Ferrari 1584. fol.II.
Super Missus est, in Salutationem Angelicam et Canticum Magnificat. Lugduni 1606, per Sixtum Alogkrugier Alemanum. Deinde Matriti in Regia Typografia 1648, fol., nempe in 3. To. Bibl. Virginalis P. Petri de Alva: etiam Romae curante Angelo Rocca Sacrista Typis Dominici Blasae 1590: et 92. 4.III.
In Orationem Dominicam. Tractatus illustratus ab eodem Rocca. Romae 1587. Typis Vincentii Accolti 4: etiamque 1590. 4. Bibliothecae [Pag. 61] Classicae Auctor Draudius super Magnificat, et in Salutationem Angelicam attribuit Augustino Steucho Eugubino, uti observavit Marracius, sed male: nam vidi dictum Tractatum Membranaceum in nostra Perusina cum miniaturis et antiquum valde ac in fine habetur. Completus in S. Maria Nazaret Venitiis.IV.
De Cognitione animae excerptus e p. lib. Metapysicae eiusdem Triumphi a M. Augustino Placentino dic. Gratiano Fulginati Generali. Bononiae ex officina Ioannis Iacobi de Benedictis Civis Bonon. 1503. 4. Tractatum de praedicatione generis et speciei eiusdem Triumphi edidit dictus de Fulginio ibidem 1503. 4.V.
Destructio Arboris Porphirii, et expositio cuiusdam Decretalis, scilicet duabus naturis in persona Christi figuratis in Arca Noe ad Ioannem Rectorem Ecclesiae Varadinensis in Ungaria, curante supradicto Augustino Placentino. Bononiae per eundem de Benedictis 1503. 4.V. [VI].
Commentaria super Epistolas Canonicas vel edita vel proxime edenda. Scribit enim eruditus Iacobus Hommey in supplemento Patrum p. 557. Penes me habeo Commentaria Augustini de Ancona in Epistol. Canonicas, quae fortassis prope diem evulgabimus.VI. [VII].
Super Mattaeum fol. membranaceum in nostra Bibl. Patav.: ut ex Thomasino.VII. [VIII].
Tractatue de Resurrectione mortuorum per 40 Theoremata scriptus 1430, in memb. fol. est in Bibl. S. Antonii Patavii ex eodem pag. 58. [Pag. 62]VIII. [IX].
Quaestiones super Epist. Canonicam D. Iacobi m. 4. in Bibl. Veneta SS. Ioannis et Pauli, ex eodem pag. 27.IX. [X].
Sermones vari M.S. 4 in nostra S. Marci Mediolani.X. [XI].
Glossae in onmes Epistolas Canonicas et Apocalypsim. Londini in Bodleiano, ut patet in supradicta L. A.XI. [XII].
Super Apocalypsim catena Patrum Tract. M. S. fol. Est in nostra Ventimilii a me acquisitus.XII. [XIII].
Sermones de Sanctis ad Clerum. Romae in nostra Angelica.XIII. [XIV].
In Ezechielem lib. I. In Marcum, Lucam et Ioannem lib. 3. In Actus Apostolorum lib. 1. In omnes Epist. Pauli, et Canonicas expositio, et demum Catena Patrum. de introitu terrae promissionis de cantico spirituali, sive de decem cordis. Sernones Dominicales ad Clerum: Tabula seu Index moralium S. Gregorii aliosque Libros ipsius.XIIII. [XV].
In quatuor Libros Sententiarum. De amore Spiritus Sancti. De Spiritu Sancto contra Graecum. De Predestinatione, Praescientia et Libero Arbitrio. De consolatione Animarum Beatarum. De potestate Collegii mortuo Papa. De potestate praelatorum. De Thesauro ecclesiae. Quodlibeta Parisiis disputata. Contra divinatores et Somniatores. Super facto Templariorum.XV. [XVI].
De Praedicatione generis et speciei expositio, et quaestiones in Libros priorum Aristotelis. [Pag. 63] Commentaria super 12 libros Metaphysicorum. Milleloquium veritatis incepit, sed eo morte praevento, perficit Bartolomaeus Urbinas. Omnia B. Augustini Triumphi opera Civium Anconitarum sumptibus descripta in magnis et pulcherrimis Voluminibus habet Vaticana. Recentemente lo Scholz pubblicò di Agostino di Ancona il Tractatus brevis de duplici potestate praelatorum et laicorum, quello De facto Templariorum, la dissertazione De potestate collegii mortuo papa, il libro Contra divinatores et somniatores (102) , e il Fink inserì nelle Fonti per la storia di Bonifazio VIII, un'operetta Contra articulos inventos ad diffamandum Sanctissimun patrem Dominum (103) che fu attribuita con buone ragioni al Trionfo. Esamineremo in seguito insieme alla Summa de potestate ecclesiastica questi brevi trattati.
NOTE
(97)
Cito per limitarmi a pochi, A. Fivizzano nella vita del Trionfo premessa all'edizione del 1582 della Summa de Potestate Ecclesiastica; HERRERA, Alph. Aug. Matriti 1644, tom. I, pagg. 8-9; GANDOLFI, Dissertatio historica, Romae 1704, pag. 81; LANTERI, Postrema saecula, Tolentini, 1858, vol. I, pagg. 74-77.(98)
ANACLETA AUG., Capitulum Generale de Neapoli, III, pag. 15:Post praemissum vero fratrem Amodeum legat frater Augustinus de Bergamo, et post ipsum legat fratrem Augustinus de Ancona.
(99)
Arch. Vat. Reg. 114, ep. 1503, fol. 145v. e Reg. 113, ep. 1719, fol. 293v. Cfr. Denifle, II, pag. 289.(100)
Op. cit., pag. 82.(101)
IBID., pp. 83-84.(102)
Die publizistik zur Zeit PhiIip des Schönen und Bonifaz VIII, pagg. 486 e sgg. Unbekannte Kirckenpolitische Streitschriften aus der Zeit Ludwig des Bayeru, pagg. 481 sgg.
CAP. IV.
GIACOMO DA VITERBO
[Pag. 64]
Di questo insigne filosofo e scrittore politico, poche notizie, ci tramandarono gli storiografi contemporanei. Delle sue opere, soltanto la maggiore, il "De Regimine Christiano", è stata pubblicata in questi ultimi anni (1), le altre, e alcune veramente pregevoli, come le questioni disputate in Parigi, "De praedicamentis in Divinis", sono ancora ai nostri giorni inedite e neglette. Eppure questa interessante figura di dotto e di santo, che scrisse libri catalogati fra le opere classiche nella lista ufficiale pubblicata dall'Università di Parigi il 25 Febbraio 1304 (2), che occupò un degno posto fra gli scrittori politici del suo tempo, avrebbe meritato una sorte diversa. Ma alla [Pag. 65] sua fama nocque forse la gloria di Egidio Romano, suo maestro, nocque soprattutto l'esser vissuto in uno dei grandi secoli del pensiero umano, nel quale numerosissime furono le personalità e soltanto i sommi s'imposero all'attenzione dei contemporanei e alle ricerche amorose dei posteri. Ignoriamo la famiglia cui egli appartenne, l'anno di nascita e l'anno del suo ingresso nell'Ordine degli Eremitani di S. Agostino. Jacobus de Viterbio, dal nome della città dove ebbe i natali, viene detto dagli scrittori che fino al secolo XVI parlarono di lui. Il primo degli storiografi agostiniani a farlo discendere dalla famiglia dei Capocci, fu Maurizio Terzo da Parma († 1581), cui la morte impedì di pubblicare le opere di Giacomo da Viterbo da lui diligentemente raccolte. Ma del filosofo agostiniano, che aveva onorato la cattedra teologica dell'Università di Parigi, egli stese una breve biografia che il Mazzocchi pubblicò nel 1753 (3). "Fuit, dice Maurizio Terzo, ex-nobili familia de Cappociis, quae multorum virorum illustrium fecunda mater fuit". Ma proprio in quegli anni (1561) Giuseppe Panfilo (4), e in seguito nel 1644 [Pag. 66] Tommaso Herrera (5) e nel 1678 Luigi Torelli, non fanno menzione alcuna, scrivendo di Giacomo da Viterbo, della famiglia da cui sarebbe derivato. Anzi Luigi Torelli, esplicitamente asserisce che, "quantunque sappiamo di certo che questo buon servo di Dio nacque nella famosa e nobile città di Viterbo, degna metropoli del Patrimonio di S. Pietro, tutta volta non sappiamo poi, per la poca diligenza dei nostri antichi Padri, né quali fossero li di lui genitori, nè l'anno preciso in cui egli nacque nè altra cosa della stia puerizia" (6). Soltanto dal Secolo XVIII in poi gli storici concordano nel farlo discendere dalla nobile stirpe dei Capocci, ma per quante ricerche abbia fatto nell'Archivio Comunale di Viterbo, non ho mai trovato menzione del nostro agostiniano fra i personaggi della nobile famiglia. La stessa oscurità avvolge l'anno della sua [Pag. 67] nascita. Sappiamo che nel 1281 era egli studente nell'Università di Parigi. Ce ne fa fede una definizione del Capitolo celebrato in detto anno in Campiano dagli Eremiti di S. Agostino della Provincia Romana, con la quale fu stabilito che tanto a lui quanto ad altri dei suoi confratelli si dessero dieci fiorini d'oro per comperare libri e sostenere le spese di ritorno da Parigi (7). I Padri Capitolari lo appellano lector novus. I lectores novi erano gli studenti che tornati, o in procinto di tornare da Parigi, dopo aver compiuto gli studi di teologia, che duravano cinque anni, erano insigniti del grado accademico di lettore (8). Se dunque Giacomo da Viterbo, terminato il quinquennnio (9) nella facoltà teologica dell'Università di Parigi, si accingeva nel 1281 a fare ritorno in Italia, non più tardi del 1275-1276 [Pag. 68] doveva essersi recato nella Metropoli francese. Fin dal 1260 affluivano a Parigi i migliori giovani dell'Ordine Agostiniano. Gli alunni erano inviati in via generale giovanissimi in Francia: soltanto in casi speciali, quando l'Ordine non era pressato da bisogno urgente di avvalersene, i lettori potevano anche dopo i 35 anni di età lasciare le case di studio italiane e recarsi a Parigi (10). Computando che Giacomo da Viterbo avesse vent'anni quando laciò il convento Agostiniano di Viterbo, eretto nel 1258, dove aveva compito i primi studi detti delle Arti, e divisi in Logica, Filosofia e Metafisica, l'anno della sua nascita è da riportarsi al 1255-1256, e il suo ingresso nell'Ordine verso il 1270. Tornato in Italia, i suoi confratelli ebbero si subito l'oppurtunità di servirsi dell'opera sua. Nel Capitolo della Provincia Romana tenutosi a Cori nel 1283, nel mese di Maggio, i Padri Capitolari, avendo fatto un compromesso fra loro, [Pag. 69] rimisero l'elezione di tutti gli ufficiali della Provincia alla prudenza ed all'arbitrio del Padre Egidio Romano, allora baccelliere dell'università di Parigi. "Auctoritate dicti compromisi", Giacomo da Viterbo fu eletto definitore della Provincia (11). Un anno dopo, celebrandosi un nuovo Capitolo a Genazzano, eletto già il Provinciale, i Padri Capitolari, per l'elezione degli altri officiali, convennero di rimettersi per la seconda volta alle decisioni del "Venerabile Padre fr. Egidio Romano". Giacomo da Viterbo fu designato visitatore della Provincia Romana (12). Un terzo compromesso ebbe luogo nell'anno 1285 nel Capitolo celebrato a Tuscania, nel mese di Maggio, e il P. Egidio Romano elesse il nostro Giacomo definitore della Provincia (13). Ma dovette tornare quasi subito a Parigi. Infatti nel Capitolo Provinciale adunatosi in S. Nicola di Stretto nel Maggio 1288, egli è nominato come assente e insignito del titolo di baccelliere parigino (14). Fra il maggio dunque 1285 (Capitolo di Tuscania) e il maggio 1288 (Capitolo di Stretto) dovette egli fare ritorno in Francia. Fu [Pag. 70] probabilmente nell'inizio dell'anno scolastico 1287-1288, cioè nell'ottobre del 1287, che ottenne il baccellierato (15), la prima tappa nei corsi di Parigi, per arrivare alla licenza e quindi al magistero. Nel maggio 1290 Giacomo da Viterbo era ancora baccelliere: "baccellarius parisiensis" viene egli appellato in una definizione del Capitolo Generale celebrato dal suo ordine in Ratisbona (16). Lo era ancora due anni dopo quando nel Capitolo provinciale di Viterbo, gli furono assegnati otto fiorini d'oro "pro ordinata provisione sua" (17). Nel maggio invece del 1293 una definizione del Capitolo provinciale di Orvieto lo nomina col titolo di dottore in S. Teologia. (18). Era stato dunque incorporato nel gruppo dei maestri: lo avevano proclamato dottore con tutta probabilità sulla fine dell'ottobre o nel principio del novembre 1292, mentre si iniziava il nuovo anno scolastico. Egli rimasè lungo tempo ancora a Parigi: era uno dei maestri actu regentes, di quelli cioè che [Pag. 71] non contenti di un titolo onorifico continuavano il professorato effettivo, e riprese le sue lezioni pubbliche. Le spese per la nomina dei dottori non erano indifferenti. Gli furono assegnati venticinque fiorini d'oro pro gratia promotionis Magisteri sui (19). Egli era ormai considerato dai confratelli come uno dei soggetti brillanti dell'Ordine; nel 1295 il Capitolo Generale di Siena ebbe occasione di occuparsi di Giacomo da Viterbo in un modo lusinghiero per lui, incaricandolo di "scribere et facere opera in Sacra pagina" e sovvenendolo, a tale uopo, largamente di danaro (20). E per [Pag. 72] non distrarlo dall'opera intrapresa, non affidarono a lui altri incarichi e non lo menzionarono più nei capitoli della provincia fino all'anno 1299, se non incidentalmente, per ricordare la solita assegnazione annuale di otto fiorini d'oro (21). Nel Settembre del 1299, fu designato dalla Congregazione tenuta a Viterbo a definitore per il Capitolo Generale che doveva tenersi l'anno seguente a Napoli (22). Venne egli infatti in questa città, insieme agli altri Padri Capitolari, e dovette rimanervi perché il Capitolo Generale gli affidava la direzione dell'insegnamento nello "Studio Generale" che gli Agostiniani in quella città possedevano (23). Era presente al Capitolo di Napoli Re Carlo II d'Angiò (24) e forse fin d'allora [Pag. 73] l'umile monaco dovette ispirare simpatia al potente sovrano. Certamente all'attività del nostro Giacomo si aprì a Napoli un più vasto campo. Quando Giacomo da Viterbo fu chiamto a reggere lo "Studio Generale" che gli Agostiniani avevano fondato a Napoli, si era vicini al trattato di Caltabellotta (29 Agosto 1302), che doveva ridare la pace al mezzogiorno d'Italia [Pag. 74] e permettere a Carlo II di volgere la mente a riordinare il proprio regno e a consolidare il proprio dominio. Il discepolo di Egidio da Roma dovette ben presto salire in fama nella capitale del mezzogiorno. Vi era giunto con l'aureola dell'insegnamento di Parigi, aveva forse con sè recato un'eco delle grandi lotte fra le varie tendenze filosofiche della prima Università di Europa, si doveva guardare a lui come ad uno dei grandi luminari che in quell'epoca rappresentavano una scuola filosofica e teologica illustrata con dotte opere, sostenuta con forte ardore di fede e di polemica. A Napoli egli scrisse, come vedremo, il suo libro migliore, il "De Regimine Christiano". Dovette subito attirarsi le simpatie e la protezione di di re Carlo. L'occasione per attestare al brillante professore la benevolenza regale non doveva farsi attendere: [Pag. 75] con bolla del 3 settembre 1302 Bonifacio VIII lo nominava arcivescovo di Benevento. Proprio allora il fiero Pontefice aveva forse letto la dedica a lui rivolta nel "De Regimine Christiano", un libro che rispecchiava così bene le sue idee politiche sul papato, e si mostrò grato all'autore lodandolo come adorno di molte virtù, "eminenti litterarum scientia preditum, virum quoque vite preclare, conversationis humillime, morum honestate decorum... in spiritualibus providum et in temporalibus circumspectum" (25). [Pag. 76] Ma il novello arcivescovo era destinato ad onori maggiori. Preso appena possesso della sede a lui affidata, un'altra bolla del Pontefice, nello stesso anno, a dì 12 dicembre, lo trasferiva a quella di Napoli (26). Era la via aperta ai più [Pag. 77-78] alti onori che la Chiesa potesse dare ad un figlio illustre e devoto. L'attività dell'antico maestro di teologia innalzato ai supremi fastigi delle dignità ecclesiastiche, dovette essere notevole, importanti le opere che egli dovette compiere nel governo pur troppo breve della Chiesa di Napoli. [Pag. 79] Ma a noi non rimangono che pochi documenti di questa attività, non altro che alcune lettere e decreti di Carlo II e Roberto d'Angiò, conservate nei loro regesti, comprovanti, per le frasi deferenti e affettuose rivolte a Giacomo da Viterbo, lo zelo di lui nell'assolvere il compito affidatogli. Spigolando nei regesti Angioini degli anni 1302-1307 (27) non poche volte troviamo menzionato l'arcivescovo di Napoli e non pochi elogi tributati ai suoi meriti singolari (28). Lo si chiama spesso consigliere e famigliare del Re (29): basta la sua testimonianza [Pag. 80] a rendere valido un testamento contro il quale si era intentato giudizio di nullità per mancanza di forme legali (30); a sua istanza si grazia un omicida condannato a morte e gli si commuta in altre più leggere, la pena capitale (31). Una delle sue maggiori preoccupazioni e benemerenze fu il novello impulso che diede ai lavori in corso per l'erezione della nuova Cattedrale. Distrutta la Stefania, una delle più belle e ricche chiese del Medio Evo, Carlo I d'Angiò fece gettare le fondamenta dell'odierno Duomo, ma per la sua morte, avvenuta in Foggia nel Gennaio del 1285, si dovettero sospendere i lavori appena incominciati, che furono ripresi nel 1294 per l'interessamento di Carlo II e dell'Arcivescovo Filippo Minutolo, e terminati nel 1314 sotto Roberto di Angiò (32). La costruzione di questa grandiosa basilica dette modo a Giacomo da Viterbo di spiegare tutta la sua mirabile attività. A sua istanza probabilmente il re di Napoli ordinò, [Pag. 81] con lettera in data 27 settembre 1303, all'Università di Napoli di sborsare il danaro promesso per l'erezione della cattedrale (33), e con lettera del 4 Giugno 1305 impose il pagamento delle decime destinate a questo scopo (34). Abbisognando gran quantità di legname che doveva trasportarsi dalla Calabria per la copertura dell'edificio, lo stesso re concedeva la franchigia da qualunque gabella per il trasporto del materiale, purché si presentassero "testimoniales litteras Venerabilis Patris Domini Jacobi Neapolitani Archipiscopi dilecti consiliarii familiaris et fidelis nostri" (35). Con decreto emanato l'8 Marzo, Roberto duca di Calabria accordava il permesso delle armi a coloro che lavoravano per la costruzione della Cattedrale purchè fossero muniti dell'attestato dell'Arcivescovo (36). Anche a Bonifacio VIII chiede Giacomo da Viterbo aiuti e sussidi per la Diocesi. Si ha nota nei regesti di papa Gaetani di un prestito concesso all'arcivescovo di Napoli da alcuni banchieri toscani con il consenso del Pontefice (37). Il danaro [Pag. 82-83] prestato ammontava a seimilacinquecento fiorini d'oro. Oltre la piena fiducia di Carlo I, Giacomo da Viterbo ottenne attestati di stima e prove di benevolenza da Roberto d'Angiò, allora duca di Calabria. Il Cantera riporta vari decreti del giovane principe che concede favori al proprio Arcivescovo con frasi affettuose e deferenti. Un altro documento inedito, per caso a lui sfuggito, ho potuto trovare nei regesti Angioini: una lettera in data 28 Maggio 1307, con la quale si concede il porto d'armi ai famigliari, procuratori, ufficiali, ai guardiani delle foreste e delle fattorie dell'Arcivescovo di Napoli, prestando consenso, dice il diploma, (e sono da notarsi le parole rispettose e cordiali): "supplicationibus Venerabilis Patris Domini Jacobi, Dei gratia Neapolitani Archiepiscopi, consiliarii et familiarii paterni, nostrique devoti" (38). [Pag. 84] Alcuni storici e biografi (39) hanno voluto attribuire, al filosofo viterbese un grande acume politico, paragonandolo a Pier delle Vigne o a Taddeo da Sessa; e affermano che a lui, in speciali congiunture, sarebbe stato affidato dal re di Napoli il governo dello Stato in qualità di supremo luogotenente. Il Taglialatela (40) asserisce senz'altro che "un accurato studio che potrà farsi sui Registri Angioini rivelerà certamente maggiori documenti su questa che abbiamo detto luogotenenza temporanea del Napolitano Arcivescovo". [Pag. 85] Ora l'esame diligente dei regesti di casa d'Angiò nulla ha rivelato che possa autorizzarci a trarre le conclusioni cui arrivano i sullodati storici, ma certamente il titolo di consigliere dato continuamente a Giacomo da Viterbo ci fa supporre che spesse volte al suo senno politico si rivolgessero i sovrani angioini in quell'epoca tanto travagliata. Governò la Chiesa di Napoli appena cinque anni. Nella fine del 1307 o nel principio dell'anno seguente (41), nella metropoli fervente di vita e di poesie, mollemente adagiata sull'azzurro del mare che rispecchia in un sorriso innumerabile, come canta il vecchio Eschilo, la gioia del sole, nel pieno vigore delle forze, egli, il dotto e pio pastore di popoli, si addormentò del sonno eterno. I contemporanei lo chiamarono venerabile per virtù e scienza; i posteri lo insignirono dell'aureola dei beati. La sua immagine fu dipinta nella cappella del palazzo di città di Viterbo, in un medaglione, fra i santi e i beati concittadini, con l'iscrizione "Beatus Jacobus Viterbiensis Archiep. Neapolitatanus". Infine la congregazione dei Riti, istituito regolare processo, con decreto approvato da Pio X, confermava il 4 Giugno 1914 il culto reso da tanti secoli all'insigne dottore agostiniano, il quale veniva posto ufficialmente dalla Chiesa nel numero dei Beati. [Pag. 86] Il filosofo scolastico, lo scrittore politico curialista, il Pastore di anime dallo zelo indefesso, occupa un seggio importante fra i pensatori del suo tempo. Non fu un creatore di sistemi filosofici e teologici, un indomito suscitatore di lotte e di energie, un precursore e divinatore di tempi, no, la sua gloria brilla di luce più modesta, egli appartiene al suo secolo senza sorpassarlo. Ma colui che appartiene al suo tempo, esercitando su di esso una notevole influenza, appartiene a tutti i tempi, perché ha parte nel preparare le grandi gesta e le grandi opere suscitatrici a loro volta di altre gesta e di altre opere, ha parte nello sviluppo morale e intellettuale dell'umanità che unisce un'epoca all'altra in una serie ininterrotta di lotte e di progressi, come un anello si ricollega all'altro nella catena. A lui, Giacomo da Viterbo, a distanza di secoli, un altro alunno dell'ordine Agostiniano, greco di nazione, a nome Niceforo Sebaste, poteva meritamente rivolgere questo epigramma (42): "Diceris Antistes, magnus speculator in Aulis: / Divina haec merito Nomina scripta docent. / Lucta erit hinc ingens, magnum certamen, an ista, ab / Infula, an a libris gloria tanta venit? / Sed componamus: dum libros Patria laudat, / Virtutes celebret Parthenope alma tuas". [Pag. 87] Ai cenni biografici di Giacomo da Viterbo aggiungo l'elenco delle sue opere. Gli scritti di questo filosofo sono ancora inediti, ad eccezione, come già si è detto, del "De Regimine Christiano". Una bibliografia completa richiede un lavoro lungo ed irto di materiali difficoltà che io, almeno per il momento, non ho potuto superare. Ho inteso dare una semplice base, un punto di partenza per un esame più accurato dei codici che nelle Biblioteche di Europa riportano gli scritti di Giacomo da Viterbo. Ed anche nel dare l'elenco delle sue opere io mi sono trovato imbarazzato, perché il numero di esse varia negli storici che ho consultato, e di poche soltanto, fortunatamente delle più importanti, si trovano i Codici. Questo autore fu disgraziato nella sua fama di scrittore: fin dai tempi remotissimi si usò defraudarlo dei suoi lavori; un contemporaneo che visse molto più lungamente di lui, Giordano di Sassonia, dice testualmente così: "Item (edidit) lecturam sententiarum cum multis aliis conceptibus suis qui post mortem suam non omnes ad lucem, venerunt, quia quidam furati sunt opera sua multa, facientes sibi de falso cornua" (43). [Pag. 88] Per l'elenco delle opere riporto letteralmente il catalogo che Felice Ossinger ci ha dato degli scritti di Giacomo nella "Biblioteca Augustiniana" (44) un libro che illustra l'attività letteraria e filosofica degli scrittori agostiniani. Confrontato il suo catalogo con quello di Maurizio Terzo, che è il biografo più antico e che ha veduto e letto, come egli dice, le opere di Giacomo (45), l'abbiamo trovato più accurato ed esatto. Ventiquattro sono le opere da lui enumerate. Eius memoriam, dice l'Ossinger, aeternam reddunt opera posteritati relicta quae sunt:I.
Libri duo de Regimine Christianitatis, quos Clementi V Pontifici Maximo dicavit. Asservantur in Biblioteca Vaticana et Parisiis sub num. 4046 et 4229.Maurizio Terzo afferma che il trattato fu dedicato prima a Bonifazio VIII e poi a Clemente V. I codici riportano la dedica a Bonifazio. Forse l'autore dopo la morte di papa Gaetani, rivolse in una nuova edizione, la sua opera a Clemente V assunto alla sede pontificale. [Pag. 89] Di questo trattato esistono vari codici:
1)
A Parigi, Biblioteca Nazionale, Cod. Lat. 4046, membr. del secolo XIV olim Colbertinus.2)
Nella stessa Biblioteca il codice 4229, membran. del secolo XIV-XV olim Colbertinus.3)
A Roma, nella Biblioteca Angelica, il codice 130 (B. 4-7) del secolo XV, cartaceo, in 8° di cc. 224. Donato all'Angelica da Fr. Tommaso de Herrera, Agostiniano, della provincia di Castiglia, il 23 Novembre 1630 (46), contiene anche il "De Potestate Ecclesiastica" di Egidio Romano.4)
Nella stessa Biblioteca, il cod. 367 (D. I. 13), cartaceo del secolo XVII, in 4° di cc. 518:5)
e il codice 347 (C. 8-15), cartaceo del secolo XVIII in 4°, di cc. 169.6)
Nella Biblioteca Casanatense il Cod. Lat. 3212, cartaceo del secolo XVII.7)
Nella Vaticana Lat. il ms. 5612 del secolo XIV.II.
Quaestiones Parisiis disputatae de predicamentis in Divinis. Extitit hic codex in Archivio Conventus nostri Viterbi ac in Bibliotheca Carbonaria ad S. Joannem, in membrana cum miniaturis in fol.[Pag. 90]
Il Perugi afferma che detto Codice si trova nella Nazionale di Napoli, ma non dice quale ne sia la segnatura (47). Nell'Angelica di Roma si conservano due altri esemplari di quest'opera, i Codici cartacei n. 213 e n. 1357. Quest'ultimo era preparato per la stampa perché in fine vi si legge: "apud Joannem Simbeneum impresorem". Un altro Codice del secolo XIV, in pergamena, distinto col numero 167 riporta, nella Biblioteca di Bordeaux, tra le cc. I-91 le "Quaestiones de predicamentis in divinis cum quatuor collibetis magistri Jacobi de Viterbo (sic) sacre theol. professoris Arch. Neap. O. F. Her. S. Aug.".III.
Quodlibeta quatuor Parisiis exposita et disputata. Asservantur in nostra Biblioteca Mediolani ad S. Marcum.Giordano di Sassonia, nelle "Vitas Fratrum" parla di "tribus quodlibet B. Jacobi"; Maurizio Terzo dice: "Alii tres, alii duos tantum libros agnoscunt. Ego quatuor ab eo confectos puto, quamquam nonnisi hos tres (cioè quelli che egli aveva preparato per una stampa impedita poi dalla sua morte) reperire potuerimus" (48). Numerosi sono gli esemplari che di quest'opera [Pag. 91] ci rimangono. Nella Nazionale di Napoli, con la segnatura VIII. E. 44, si conserva un codice membranaceo a due colonne che ha per titolo: Fratris Jacobi de Viterbio, ordinis Eremitarum S. Augustini, quaestiones de quodlibeto libro secundo. Doveva appartenere al convento di S. Domenico Maggiore di Napoli, perché alla prima pagina reca scritto: "Ponatur in armario S. Dominici de Neapoli". A Bordeaux lo stesso codice 167, che riporta nelle cc. 1-91 le "Questiones de predicamentis in divinis", contiene nelle cc. 117-217 le "Questiones de quolibet". Nella Vatic. Ottob. il cod. 196 contiene i "Quodlibeta". Nella Vatic. Lat. tre codici pergam. segnati con i numeri 5745 (in 4°, con le parole "Dixisti Domine" nell'inizio), 772 (cc. 63-95) e 982 (cc. 1-21) recano "Quodlibeta". Nella Laurenziana Palatina di Firenze si trovano "Quodlibeta duo" nel Pluteus XVII, Cod. II membran. in 4° maggiore, a due colonne, del secolo XIII, con le lettere iniziali colorate. Il primo dei quodlibeta comincia: "In disputatione de quolibet prehabita, quesita sunt in universo vigintiduo", ed il secondo "quarumcumque una religio ab alia secundum perfectionem in infinitum non procedatur etc.". Nella Nazionale di Parigi il primo libro dei "Quodlibeta" è contenuto nel Codice 15,350 [Pag. 92] e il primo e il secondo si trovano nei mss. 14,569, 15,362 e 15,851 (49). "Questiones determinate de quolibet a fr. Jacobo de Viterbio" sono riportate nei codici 3512 e 889 della Biblioteca Mazarino. Anche il codice 269 di Troyes ed il 373 membran. del secolo XIV dell'Antoniana di Padova contengono "Quodlibeta". Quest'ultimo manoscritto, dopo avere riportato le "questiones quodlibetales di Tommaso di Aquino e di altri dottori, ne inizia altre: "In disputatione de Quodlibetis prehabita", terminandole con le parole: "Expliciunt questiones de quodlibetis determinate a Fr. Jacobo de Viterbio Ord. Frat.m Heremit.m S. Augustini (50). Nella Biblioteca di Angeri il codice pergam. 223 cc. 119 contiene: "Questiones de quolibet determinate a fratre Jacobo de Viterbio Ordinis Fratrum Herem. Sancti Augustini. In disputatione de quolibet prehabita, quesita sunt in universo vigintiduo". Nella Comunale dell'Archiginnasio di Bologna il codice A 971, membranaceo (mm. 320 x 230), di due diverse mani del secolo XIV (1.a cc, 1-24, 46-79; 2.a cc. 25-45), di carte non num. 79 a due colonne di II. 56-57, legato in mezza pergamena, con glosse qua e là del secolo XIV-XV, riporta [Pag. 93] del nostro Giacomo: "Quodlibeta tria theoligica et Quaestiones septem de Verbo". Quodlibet I. inc.: "In disputacione de quolibet prehabita quesita sunt in universo viginto duo que ut enumerantur". Quodlibet II. (c. 25): "In disputacione secunda de quolibet prehabita quesita sunt in universo XXIII, quorum unum est pertinens". Quodlibet III (c. 46): "In tercia disputacione de quolibet prehabita quesita sunt in universo XXVI que ut prosequantur". Questio I de verbo, inc. (c. 62): "Utrum verbum sit ratio alicuius alterius productionis in trinitate. Dicendum quod ista questio supponit". Quaestio VII, desinit: "difficultatem a premissis, ideo brevi brevitatis gracia relinquuntur" (51). A tutti i precedenti va poi aggiunto un altro ms. della Biblioteca vaticana, fondo Borghese, n° 298, del sec. XIII (fine) o XIV (principio), perg. su due colonne, in fol., cc. 224. [Pag. 94] Da c. 157 a c. 201 contiene: "Quodlibeta abreviata fratris Jacobi (de Viterbio) heremite". A c. 157: "Hic incipit primum quodlibet abreviatum fratris Jocobi heremite". A c. 181v: "Explicit primum quodlibet abreviatum fratris Jacobi heremite. Hic incipit secundum quodlibet abreviatum eiusdem [fratris]". A c. 201: "Explicit primum et secundum quodlibet abreviatum fratris Jacobi beremite. Hic incipit tabula primi et secundi quodlibet abreviati fratris Jacobi". A c. 201v: "Explicit tabula secundi quodlibet abreviati, fratris Jacobi heremite. Scriptor huius libri vocatur Hugo de Loundres vel Londiniis. Amen, Amen, Amen".
IV.
Abbreviatio sententarium Aegidi Columnii, in fol. Extat in nostra Biblioteca Carbonaria ad S. Joannem. Ms. incipit: Abbreviatio sententiarum Aegidi Romani, per R. P. mag. Jacobum Viterbiensem, Archiepiscopum Neapolitanum, omnium scientiarum gloria illustrem. Egidii volumen in compendium adducit, multa tamen addit ubique, ut potius Jacobi, quam Aegidii, dici debeat. In fine legitur: "Longas curro vias, vestigia nulla relinquo". Mag. Andreas de Alexandria scripsit.Questo codice cartaceo in 4° grande a due col. [Pag. 95] del sec. XIV si trova attualmente nella Nazionale di Napoli con la segnatura VII C. 52.
V.
Lectura super quatuor libros sententiarum, in fol. parvo membran. est in nostra biblioteca Senis ad S. Augustinum. Hoc opus Blancus, et Chioccarelli Summam Summae appellant.Ora il Codice si trova nella Comunale di Siena, con la segnatura G. Y. 15.
VI.
Quaestiones S. Theologie, in fol. membran. teste Jacobo Philippo Thomasino, reperiuntur in Biblioteca SS. Joannis et Paulo.Il Tomasino menziona questo codice nel suo catalogo dei manoscritti delle Biblioteche di Venezia (52), fra le quali era quella dei Domenicani di S. Giovanni e Paolo. Ora dovrebbe trovarsi alla Marciana, ma sembra smarrito.
VII.
Quaestiones quinquaginta de Spiritu Sancto, habentur in nostra biblioteca Bononiae.VIII.
Recollectiones, seu catena Patrum super Epistolas D. Pauli. In eadem Bibliotheca ad S. Jacobum.[Pag. 96]
Il ms. non è stato rinvenuto nè all'Universitaria nè alla Comunale.IX.
Alia triginta Quodlibeta. Extant Romae in Biblioteca Minervae.Il Gandolfi e il Mazzocchi asseriscono che a questa Biblioteca il codice fu donato dal Card. Torrecremata. Ora però il ms. per quante ricerche abbia fatte alla Casanatense, non mi è stato possibile rinvenirlo.
X.
Comm. super quatuor libros sententiarum.I primi tre libri sono riportati nel codice 62 del collegio Balliol di Oxford. Il ms. comincia con le parole: "Cum venisset una vidua... Laudanda creatoris humilis et pia benevolentia" (53). Della Nazionale di Napoli, il Cod. Membran. in f. a 2 col. del secolo XIV con la segnatura VII, C. 4 contiene, di Giacomo da Viterbo, le "Questiones in primum librum sententiarum". La prima pagina ha fregi miniati nel margine ed il ritratto del B. Giacomo nel mezzo della prima lettera Q: (Quaestio).
XI.
Divisio super eosdem quatuor. [Pag. 97]XII.
Quaestiones de Angelis, ac eorum compositione.XIII.
Quaestio percelebris de coelorum animatione.XIV.
Explicatione super Epistolas D. Pauli.XV.
Expositio in Evangelium D. Matthaei.XVI.
Interpretatio in D. Lucam Evangelistam.XVII.
Summa da articulis fidei.XVIII.
De mundi aeternitate secundum fidem catholicam.XIX.
Comment. in libros Phisicorum et Metaphisicorum.XX.
Liber de naturae principiis.XXI.
Notabilia in sententias.XXII.
Concordantiae psalmorum, ad Carolum II Siciliae et Jerusalem regem.XXIII.
D. Thomae Aquinatis utilis tabula.Haec, suppresso nomine nostri Cappociis, falso cui alteri fuit adscripta. [Pag. 98]
XXIV.
Sermones diversi exstant Romae in Biblioteca Canonicorum S. Petri.Sono contenuti nel codice D. 213 dell'archivio della Basilica di San Pietro con il titolo: "Fratris Jacobi de Viterbio. Sermones". Oltre queste opere menzionate dall'Ossinger, Maurizio Terzo cita un altro scritto dal titolo: "Primi libri, qui est in Sententias, Aegidi Romani, brevior forma". Due codici, l'uno VII G. 101 della Nazionale di Napoli membranaceo, in ottavo, a due colonne in carattere semigotico, del secolo XIV; l'altro, cartaceo e membranaceo, dello stesso secolo, segnato col num. 743 pluteo lettera o, nella Biblioteca di Montecassino, riportano un'altra opera di Giacomo da Viterbo: la Summa de peccatorum distinctione. Nel primo foglio del ms. della Nazionale si legge: "Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae Professoris, Fratrum Eremitarum Sancti Augustini, Archiepiscopi Neapolitani". Nella prima lettera "S" dipinta e dorata, è rappresentato Giacomo da Viterbo in atto di disputare con tre frati del suo Ordine. Nel codice di Montecassino sono contenuti due altri lavori: "De Confessione" e "De Episcopali Officio". Nella coperta del ms. di mano posteriore, [Pag. 99] si legge: "Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Ordinis S. Augustini et Neapolitani Archiepiscopi, qui obiit anno millesimo trecentesimo septimo, cuius forte sunt etiam priores recensiti tractatus". Nella Vaticana Latina, un trattatello di otto capitoli, intitolato "De perfectione specierum", è attribuito a Giacomo da Viterbo. Comincia con le parole: "Cupientibus nobis". Il codice è in pergamena in 8°, con la segnatura 4545, contiene il breve scritto dalla carta 32.a alla 48.a.
NOTE
(1)
Una prima volta da G. L. Perugi, "Il de Regimine Christiano" di Giacomo Capocci viterbese, Roma Tip. Universo 1914, in un'edizione basata su un solo codice della fine del secolo XV, conservato nella Biblioteca Angelica (ms. 130), e recentemente con un apparato critico ben diverso da H. X. Arquillière, Le plus ancien traité de l'Eglise Jaques de Viterbe, de Regimine Christiano. Paris, G. Beauchesne 1926.(2)
Denifle, II, p. 109.(3)
ALESSIO SIM. MAZZOCCHI, De Sanctorum Neapolitanae ecclesiae Episcoporum cultu, T. I, Appendix, Monumentum V, pag. 412sgg.(4)
JOSEPH PAMPHILUS, Chronica Ordinis Fratrum Eremitanum S. Augustini, Romae 1581, pp. 35-36.(5)
T. HERRERA, Alphabetum Augustinianum, Madrid 1644. Vol. I. p. 369.(6)
L. TORELLI, Secoli Agostiniani, Bologna 1678, T. V, p. 276. Degli storici non agostiniani il MAZZOCCHI, op. cit., T. I, p. 187, lo deriva dalla famiglia Capocci attingendo alla biografia di Maurizio Terzo. Ma BARTOLOMEO CHIOCCARELLI, per limitarmi ai maggiori, nell'opera Antistitum Neapolit. Ecclesiae Catalogus, MDCXLIII, pag. 190; F. UGHELLI nell'Italia Sacra, in Episcopis Beneventanis et Neapolitanis, T. VI, col. 119-120 e T. VIII, col. 143, tacciono affatto il casato del nostro filosofo; e GIUSEPPE SIGNORELLI nel suo studio su Viterbo nella storia della Chiesa, Vol. I, lib. III, p. 119, nega senz'altro ch'egli appartenesse alla famiglia Capocci.(7)
Analecta Augustiniana, Vol. II, p. 246, Capitula antiqua Provinciae Romanae O. N.: "Item in eodem Capitulo provinciali imposita fuit et ordinata Maxima Collecta pro tribus studentibus, sive lectoribus novis, videlicet, pro fratre Bernardino, frate Jacobo de Columpna, Romano, et frate Iacobo de Viterbio, pro quolibet preditorum provisio integra librorum, sicut preordinatum fuit in Capitulo Generali Paduano; et pro quolibet expense redditus eorum de Parisiis, scilicet, X floreni auri pro quolibet".(8)
Analecta Augustiniana, Vol. II, p. 229, Nota 1.(9)
Secondo gli statuti dell'Università di Parigi, gli studenti di teologia dovevano frequentare sette anni, se secolari, sei anni se regolari, le lezioni della facoltà teologica. Cfr. DENIFLE, Chart., T. II, p. 692. Il sessennio fu poi, per gli Agostiniani, ridotto di un anno, come risulta dagli atti dei vari Capitoli della Provincia Romana fin dal 1273.(10)
Constit. Ord. Eremit. S. Aug., Ratisbonenses nuncupatae, Ed. Venetiis 1508, f. 32: "Statuimus etiam et precipimus inviolabiter observari ut nullus, qui tricesimum quintum annum aetatis attigerit, vadat Parisius ad studendum nisi sit tam sufficientis scientie et subtilis ingenii inventus, quod pro communitate et commoditate Ordinis generale Capitulum vel Prior generalis decreverit aliter obeservandum. Nolumus tamen ad lectores, qui interdum mittuntur Parisius ut ad Magisterium perveniant theologice facultatis, presentem costitutionem extendi".(11)
Analecta, Vol. II, Capitula Antiqua Provinciae Romanae O.N., p. 247.(12)
Ibid., p. 248.(13)
Analecta, p. 248.(14)
Ibid., p. 272.(15)
Ibid., Vol. IV, p. 403.(16)
Analecta, Vol. II, p. 292: "Item diffinimus quod si vendatur locus de monte Raccanensi, frater Jacobus de Viterbio, baccellarius parisiensis, habeat XXV florenos aureos".(17)
Ibidem, p. 341: "Pro fratre Jacobo viterbiensi, baccellario Parisiensi, pro ordinata provisione sua VIII flor.".(18)
Ibid., p. 346: "Pro fratre Jacobo de Viterbio, Magistro nostro novo, pro provisione sua annuali, VIII flor. auri".(19)
Nel capitolo provinciale di Veroli, cfr. Analecta, loco cit., p. 365. Facendosi menzione a pag. 366, nella colletta di questo capitolo, di spese sostenute da Giacomo da Roma, lettore, per recarsi a Perugia presso la Curia Romana che allora risiedeva in questa città, nell'interregno seguito nel governo della Chiesa alla morte di Niccolò IV, cum fratre Jacobo de Viterbio, per una missione che ignoriamo, alcuni credettero che il nostro Giacomo tornasse subito, dopo la laurea dottorale, in Italia. Ma evidentemente trattasi di un altro Giacomo da Viterbo, perchè non gli si attribuisce il titolo di Maestro, e lo si nomina dopo Giacomo da Roma, semplice lettore.(20)
Analecta, vol. II, p. 371: "Cum sit nostrae intentionis et velimus omnino quod frater Jacobus de Viterbio, Magister in Sacra theologia, debeat scribere et facere opera in Sacra pagina, diffinimus quod singulis annis debeat habere ab Ordine pro qualibet provincia unum florenum de auro pro scriptoribus et cartis, et aliis necessitatibus opportunis. Diffinimus et concedimus fratri Jacobo de Viterbio, magistro nostro, centum florenos de denariis comunitatis Ordinis, quos mutuavit sibi frater Rogerius de Florentia, Magister, quos florenos non teneatur sibi reddere nec Ordini nostro".(21)
Ibid., p. 388, Capit. provinciale di Montefiascone, p. 390, Capitolo provinciale di Viterbo, p. 397, Congregazione di Viterbo.(22)
Analecta, Vol. II, p. 486: "Et officiales Capituli Generalis futuri cassaverunt, alios novos eligendo, videlicet, fratrem Jacobum de Viterbio, Migistrum, elegerunt in diffinitorem Capituli Generalis etc".(23)
Analecta, Vol. III, p. 19: "Item in Studio Generali Neapolitano legat ibi frater Jacobus de Viterbio, Magister noster".(24)
Ibid., p. 14: "Hec sunt Diffinitiones facte in Generali Capitulo in conventum Neapolitano celebrato... tempore domini Bonifatii pape, Pontificatus eiusdem anno sexto. Et in presentia domini Regis Karoli secundi". Due testimoni oculari, Giordano di Sassonia in "Vitas fratrum", lib. II, cap. 4, ediz. Roma 1587, p. 68, ed Enrico di Urimaria, nel suo trattatello "De origine et progressu Ordinis fratrum Eremitarum S. Augustini", pubblicato dal Rev.mo P. E. Esteban nel vol. IV degli Analecta Aug. 1911-1912, pp. 279sgg., 298sgg., 321sgg. ci tramandarono un esempio insigne di umiltà dato da Giacomo da Viterbo in questo Capitolo. Riferisco le parole di Enrico de Urimaria: "Octavus fuit (accenna ai priori Generali che governarono gli Eremitani di S. Agostino nei primi decenni dopo la riunione e costituzione dell'Ordine avvenuta sotto Alessandro IV nel 1256) frater Augustinus de Stanno, vir magne sanctitatis et miri rigoris pro iustitia, et maximi zeli pro honore ordinis quod in mei presentia et capitulo Neapolitano probatum fuit evidentissimo documento. Nam cum venerabilis pater magister Jacobus de Viterbio, sacrae theologiae professor dignissimus, qui propter vite et scientie sue merita proximo anno sequenti capitulum certatim et concorditer electus fuit pro archiepiscopo in duobus ecclesiis metropolitanis, videlicet Neapolitana et Beneventana, me presente requisitus esset, ut venerabilem patrem fratrem Augustinum, priorem generalem, informare vellet de quondam casu tangentem quandam personam provincie mee, nobilis conditionis, et singularis vite et scientie, cuius puritatem ego optime novi, que tamen persona, me existente in provincia Francie, ab aliis personis eiusdem provincie minus juste et vere eidem patri nostro generali diffamata fuerat, ipse frater Augustinus tunc generalis, ex zelo ordinis et detestatione criminis in quo predicta persona fuerat minus juste diffamata, convocato toto capitulo generali, non considerata reverentia tante persone, ex zelo ordinis, licet forte minus juste masticato, dixit ista verba: 'Fratres Karissimi, dolenter vobis denuncio quod fratres quidam, per ordinem enutriti et in statu honoris positi, sic sue rependunt matri Religioni, quod fratres defectuosos et vitiosos nituntur excusare et defensare'. Ad que verba predictus venerabilis Magister Jacobus, considerans quod predicta obiurgatio, licet minus cauta et provida, non procederet nisi ex corde puro et zelo fervido tanti patris, surrexit coram omnibus fratribus et humiliter respondit ista verba: 'Pater, protestor coram Deo et vobis si quid in ista materia locutus sum, hoc feci ex sincero animo et puro corde pro bono ordinis: tamen si vobis videtur quod in hoc offenderim, dico meam culpam Deo et vobis et paratus sum emendare'. Ad quod responsum tante humilitatis et reverentie omnes fratres stupefacti et medulitus emendati, animus predicti patris fratris Augustini totaliter conquievit. (Analecta, Vol. IV, p. 326).(25)
Arch. Vat. Reg. an. VIII, f. 210v. Dilecto filio fratri Jacobo electo Beneventano. Recte tunc ecclesiarum utilitatibus prospicitur et indemnitatibus precavetur, cum viris discretis et providis earum cura committitur et viduatarum regimini pastores ydonei preponuntur. Unde nos, cui ex apostolatus officio imminent de universis ecclesiis sollicite cogitare, maxime circa ipsas attendimus et ad id propensius vigilamus, ut per bonos et dignos gubernentur rectores, per sufficientes et eruditos ministros spiritualium floreant et per dispensatores prudentes temporalium proficiant incrementis. Nuper siquidem Beneventana ecclesia per liberam resignationem dilecti filii Adenulphi, quondam archiepiscopi Beneventani, in manibus dilecti filii nostri Petri Sancte Marie nove diaconi cardinalis sponte factam, et ab eo de mandato nostro receptam, solatio destituta pastoris, nos provisionem faciendam dicte ecclesie de prelato dispositioni sedis apostolice specialiter reservantes decrevimus ex tunc irritum et inane si secus super his contigerit attemptari, et deinde de ipsius ecclesie ordinatione celeri, ne vacationis exposita remaneret incomodis attentius cogitantes, per vigilem qnam ad preficiendum ibidem approbatam et fide dignam personam apponimus diligentiam, ad te, ordinis fratrum Heremitarum professorem in sacerdotio constitutum, quem eminenti litterarum scientia predictum, virum quoque vite preclare, conversationis humillime, morum honestate decorum, discretionis et consili maturitate conspicuum, in spiritualibus providum et in temporalibus circumspectum ac aliis virtutum donis divinitus tibi traditis multipliciter insignitum novimus, direximus oculos mentis nostre: proinde igitur tam gregi dominico, quam dicte eeclesie intendentes salubriter providere, e de fratrum nostrorum consilio et apostolice plenitudine potestatis eidem ecclesie in archiepiscopum prefecimus et pastorum, et subsequenter tibi fecimus per venerabilem fratrem nostrum Th[eodoricum] episcopum Civitatis papalis, munus consecrationis impendi, in illo qui dat gratias et largitur premia confidentes quod ecclesia supradicta per tue industriam providentie a noxiis preservabitur et adversis, optate quoque prosperitatis spiritualiter et temporaliter proficiet incrementis.Quocirca dilectioni tue per apostolica scripta mandamus quatenus impositum tibi onus a domino devote supportans, curam et administrationem eiusdem ecclesie sic diligenter geras, et sollicite prosequaris, quod ipsa gubernatori circumspecto et fructuoso administratori gaudeat se commissam et bone fame tue odor ex laudabilibus tuis actibus latius diffundatur, ac preter benedictionis eterne premium benevolentiae nostre gratiam exinde plenius consequaris. Datum Anagnie tertio nonas Septembris anno octavo.
(26)
Arch. Vat., Reg. an. VIII, f. 235. Venerabili fratri Jacobo archiepiscopo Neapolitano. Summi providentis principis, cuius ineffabilis potentie magnitudo celestia pariter et terrena disponit, sublimi culminis aspostolici solio, licet immeriti presidentes, ad universas orbis ecclesias, presertim cathedralibus titulis insignitas, aciem considerationis extendimus, et de ipsarum statu propensioribus studiis cogitamus, opem et operam intendendo sollicitam, et apostolici favoris auxilium adhibendo ut cum illas contingit pastorum gubernatione destitui, et carere praesidio defensorum, eis ne prolixe vacationis experiantur incomoda (et) dispendiis pregraventur, per nostram curiosam solertiam, pulsis procul obstaculis et impedimentis quibuslibet eminus profugatis, celeris provisionis et utilis votiva celebritas illucescat. Pridem siquidem Neapolitana ecclesia per obitum bone memorie Phi[lippi] archiepiscopi Neapolitani, in illis partibus decedentis, pastoris solatio destituta, nos vacatione hujusmodi, ejusdem ecclesie fide dignis relationibus intellecta, gerentes erga prefatam ecclesiam, utpote fidelem, et devotam sedis apostolice filiam, spiritualis devotionis effectum, ipsamque favore precipuo confoventes, et propterea intendentes sollicite ei de persona, que iuxta suorum exigentiam meritorum, tanto congrueret honori et oneri, providere, provisionem eiusdem ecclesie, a die qua ecclesia ipsa vacavisse dinoscitur, dispositioni apostolice sedis et nostre ea vice auctoritate apostolica duximus reservandam. Decernentes ex tunc irritum et inane si quid contra huiusmodi reservationis nostre tenorem, scienter vel ignoranter a quoquam contigerit attemptari. Et demum, levantes in circuitu oculos nostre mentis, et ad personam tuam, quam propter grandia probitatis merita, et aliarum virtutum insignia, nobis utique non ignota, quibus te bonorum dator altissimus decoravit, quamque ad ipsius ecclesie Neapolitane regimen credimus et speramus fore per utilem et multipliciter fructuosam, considerationis aciem extendentes, ac intendentes patris more solliciti ecclesie prelibate profectibus eiusque statui utiliter providere, te, dudum Beneventanum archiepiscopum, a vinculo, quo ecclesie Beneventane tenebaris affectus, absolvimus, teque ad eandem Neapolitanam ecclesiam transferentes ipsi Neapolitane ecclesie de fratrum nostrorum consilio et apostolice plenitudine potestatis, te in Archiepiscopum preficimus et pastorem, curam et administrationem ipsius tibi in spiritualibus et temporalibus committendo, utique subsequenter palleum, plenitudinem vidilicet pontificalis officii, de corpore beati Petri susceptum, et a te, cum ea qua decuit instantia postulatum, ad nomen et usum eiusdem Neapolitane ecclesie per dilectos filios nostros M. Sancte Marie in Porticu, et L. Sancti Angeli, ac B. Sancti Eustachii diaconos cardinales fecimus exhiberi, plenam tibi et liberam tribuendo licentiam ad prefatam Neapolitanam ecclesiam transeundi, firma concepta fiducia, speque nobis indubia suggerente, quod eidem Neapolitane ecclesie per tue occulate circumspectionis industriam, tuumque ministerium studiosum divina favente clementia, votive prosperitatis incrementa provenient et honoris multiplicis cumulus producetur. Quocirca fraternitati tue per apostolica scripta mandamus quatenus acceptans humiliter translationem huiusmodi de te factam et reverenter supportans impositum a domino tibi onus, ad predictam Neapolitanam ecclesiam cum gratia nostre benedictionis accedas, gerens sollicite curam eius, gregem dominicum in illa tue vigilantie concreditum doctrina verbis et operis informando, ita quod ecclesia ipsa per tue diligentie studium laudabilibus in spiritualibus et temporalibus auctore domino proficiat et consurgat augmentis. Datum Laterani, jj idus Decembris, anno octavo.Con la stessa data papa Bonifacio inviava a Re Carlo la seguente lettera che si ha nello stesso foglio degli stessi Regesti:
"Carissimo in Christo filio Carolo regi Sicilia Illustri. Inter cetera que te reddunt, fili carissime, Deo gratum, et fidelium populis exhibent gratiosum, illud potissimum et speciale fore dinoscitur, ut tui regni prelatos, et eorum ecclesias ac bona et iura ipsorum favoris Regii ope confoveas et tuitionis optate presidio prosequaris, ut sub tui dominii tempore in pacis pulcritudine sedeant et quiescant in requie opulenta. Pridem siquidem etc. ... usque producetur. Quocirca Serenitatem Regiam rogamus et hortamur attente quatenus eundem archiepiscopum, quem ob suorum exigentiam meritorum benevolentia (sic) prosequimur speciali, et commissam ei ecclesiam habens, pro nostra et apostolice Sedis reverentia propensius commendatos, sic te prefato Archiepiscopo benignum exhibeas, sic favorabilem largiaris, ipsum et eandem ecclesiam Regali benevolentia prosequendo, quod idem Archiepiscopus tuis presidiis circumfultus, commisum sibi regimen facilius et efficatius cooperante Domino exequatur. Nosque proinde magnitudinem Regiam dignis in Domino laudibus attollamus. Datum ut supra.
(27)
Biagio Cantera ha raccolto diligentemente dai regesti Angioini e pubblicato i documenti riguardanti il B. Giacomo da Viterbo, Napoli 1888, Tipogr. dell'Accad. Reale delle Scienze.(28)
CANTERA, pp. 9-11: in una lettera a Carlo di Lagonessa cui commette la cura dei beni che la Chiesa di Benevento aveva in Montesarchio ed in altre terre, Carlo II, in data 2 Ottobre 1302, diceva di Gacomo da Viterbo: "Ad omnes ecclesiarum prelatos pro ecclesiasticae reverentia dignitatis sincere habemus in domino caritatis affectum, set dum specialium dona virtutum et splendorem scientie specialem venerabili in Christo patris fratris Jacobi de Viterbio sacre theologie magistri, archiepiscopi Beneventani, Apostolica noviter assumptione provisi diligenter attendimus dum conversationem eius amabilem nobis experientia diuturna pensamus prosecutionem eius et in eo ipsius beneventane ecclesie speciali affectu et propitatione precipua duximus assumendum etc...".(29)
CANTERA, p. 13. Re Carlo ordina al giustiziere di Terra di Lavoro ed al capitano di Napoli di mantenere nel pacifico possesso dei beni della Chiesa Napolitana Fr. Giacomo Arcivescovo, "pro reverentia venerabilis patris Jacobi Dei gratia Neapolitani archiepiscopi nuper assumpti pastoris illius dilecti consiliarii et familiaris nostri". Espressioni consimili si trovano in quasi tutti i documenti pubblicati dal Cantera.(30)
CANTERA, p. 20 sgg.(31)
Ibid., p. 44 sgg.(32)
GALANTE, Guida Sacra della città di Napoli, Napoli 1873, p. 2.(33)
CANTERA, op. cit., p. 19.(34)
Ibidem, p. 23 sgg.(35)
Ibidem, p. 27 sgg.(36)
Ibid., pp. 53-54.(37)
Arch. Vatic. Reg. Vatic. 50, f. 235v. ep. 321. Bonifatius episcopus servus servorum Dei ven. fr. J(acobo), archiepiscopo Neapolitano etc. Cum sicut in nostra proposuisti presentia constitutus, tam pro tuis necessariis quam pro ecclesie Neapolitane negotiis apud Sedem Apostolicam expediendis utiliter, te subire oporteat magna onera expensarum, nobis humiliter supplicasti, ut usque ad summam sex milium et quingentorum florenorum auri mutuum contrahendi, sub modis et formis infrascriptis (a) sine quibus creditores te putas invenire non posse, largiri tibi licentiam dignaremur. Nos ergo, de tua tam in hiis quam in aliis circa tua et ipsius ecclesie negotia utiliter promovenda et expedienda circunspectione ac diligentia confidentes et nolentes quod propter ipsarum expensarum defectum indigentiam patiaris, vel quod eadem negotia inexpedita remanere contingant, tuis supplicationibus inclinati, fraternitati tue contrahendi mutuum propter hoc usque ad summam sex milium et quingentorum flor. auri, nomine tuo et ipsius ecclesie etc. ut in forma usque in fine licentiam elargimur. Dat. Lateran. XVII Kal. Januarii, An. octavo.(a)
Nei Regesti questi modi e queste forme non vengono poi specificate. Ibidem f. 253: Bonifatius etc: dilectis filiis... decano Meldensi et... archidiacono Tiburtino ac magistro Odoni de Sermineto, Camere nostre clerico, canonico Xanctonensi. Exponente nobis pridem ven. fratre nostro (Jacobo), archiepiscopo Neapolitano quod tam pro suis necessariis quam pro ecclesie Neapolitane negotiis apud Sedem Apostolicam expediendis utiliter, ipsum subire oportebat magna onera expensarum, ac supplicante ut usque ad summam sex millium quingentorum flor. auri mutuum contrahendi etc. etc... (ut in forma usque in exceptionibus eiusdem) a dilectis filiis Balducio Fioravanti et Iohanne Puccii de Pistorio de Clarentum et a Facio Miczoli et Nicolao Galligari de Florentia mercatoribus, de Scalarum Societatibus, mutuantibus pro se ipsis et pro ceteris eorum sociis mercatoribus et societatibus supradictis, pro necessariis et negociis eisdem, mutuo recepit predictam summam pecunie sex millium et quingentorum flor. auri, videlicet a predictis Balducio et Iohanne trium millium et quingentorum et a prelibatis Facio et Nicolao trium millium flor. auri, certis eisdem Mercatoribus locis et terminis persolvenda, prout in Instrumentis publicis etc. ut in forma usque in fine. Dat. Lateran. III Id. Januari, an. octavo.(38)
Reg. Angioino 161, f. 141, recto. Ecco il testo del diploma: "Scriptum est: Magistro Iusticiario Regni Sicilie, Iusticiariis ceterisque officialibus per dictum Regnum Sicilie constitutis, ac Capitaneis Civitatis Neapolis, eiusque districtus, presentibus et futuris devotis suis etc. Supplicationibus venerabilis patris Domini Jacobi, Dei gratia Neapolitani archiepiscopi consilarii et familiarii paterni, nostrique devoti annuentes benignus singulis quos familiares suos in sua Comitiva morantes procuratores officiales et quoscumque alios per eundem archiepiscopum ad custodiam nemorum et forestarum aliarumque terrarum et possessionum, ac quelibet sua, et eiusdem Neapolitane Ecclesie deputatos, negocia per ipsius archiepiscopi constiterit licteras, dummodo sint bone conversacionis et fame, pro comitiva eius et pretactis exequendis negociis, licentiam arma prohibita ferendi, ad eorum defensionem, tantum et nullius offensam; usque ad Regium nostrumque beneplacitum, et donec eos continget predicta non abuti licentia de speciali gratia tenore presentium impartimur, volentes et iubentes expresse, ut nullius vestrum sit qui prefatum archiepiscopum dictosque familiares, procuratores, officiales, et huiuscemodi alios servientes suos, et dicte Neapolitane ecclesie occasione huiusmodi delationis armorum dummodo alios non offendant beneplacito ipso durante, et donec ut prefertur eos viderit predicta non abuti licentia propterea impediat vel molestet, aut permittat ab aliis molestari, presentibus post oportunam inspectionem earum remanentibus presentantibus dicto durante beneplacito et quamdiu dictam licentiam eos contingerit non abuti efficaciter volituris. Data Neapoli per Nicolaum Frectiam de Ravello etc. anno Domini Millesimo CCCVII, die XXVIII Maii, V Indictionis.(39)
MAZZOCCHI, De Sanctorum Neapolit. ecclesiae episcop. cultu, p. 159; P. GIORGI, presso il MAZZOCCHI, op. cit., p. 422.(40)
G. TAGLIALATELA, Il Beato Giacomo Capocci da Viterbo. Napoli, Stamp. già Fibreno, 1887, p. 27.(41)
Dai regesti di Clemente V, an. III, ep. 285, risulta che nel 17 Marzo 1308 fu eletto Arcivescovo di Napoli Umberto da Montauro. Cfr. EUBEL, Hierarchia Catholica Medii Aevii, p. 359.(42)
FERDINANDO UGHELLI, Italia Sacra, T. VI, col. 120.(43)
In Vitas Fratrum, Romae 1587, p. 171.(44)
Bibliotheca Augustiniana. Ingolstadt 1768, p. 203.(45)
"Porro Beatus Jacobus, quo tempore Parisiis et alibi docens permansit sequentia scripsit opera, quae originaliter in variis coenobiis Sancti Patris Augustini conservantur quae ego vidi, legi et sequentes adnotavi titulo" (MAZZOCCHI, op. cit., p. 416).(46)
Cfr. NARDUCCI, Catal. Cod. Bibl. Aug., p. 68.(47)
Op. cit., XLII, nota 2.(48)
MAZZOCCHI, op. cit., p. 417, nota 10.(49)
Cfr. Histoire litteraire de la France, T. XXVII, p. 53.(50)
Cfr. IOSA, Cat. Cod. Bibl. Antonianae, p. 29.(51)
Cfr. ALBANO SORBELLI, Inventari dei Manoscritti delle Biblioteche d'Italia. Bologna, Biblioteca della Comunale dell'Archiginnasio, pp. 117-118. Alla descrizione del codice segue questa nota: "L'Ossinger fra le opere del Capocci (Biblioteca Augustiniana, Ingolstadii 1768, pp. 203-204) non ne cita alcuna con questo titolo preciso (Quaestiones septem de verbo): il fatto però che queste questioni sono poste, nel codice, immediatamente dopo i Quodlibeta del Capocci, cosicchè anche per l'identità della struttura, ne sembrano la naturale continuazione, induce a pensare che esse pure siano opere o parti di opera dello stesso autore, ipotesi che appare ancor più verosimile, quando si osservi che fra gli scrittori addotti a conforto delle diverse argomentazioni, il più spesso citato è S. Agostino.(52)
Edito nel 1639.(53)
Cfr. Histoire litteraire de la France, T. XXVII, p. 60.
CAP. V
BONIFAZIO VIII E FILIPPO IL BELLO
[Pag. 100]
Quando Giacomo da Viterbo ascendeva alla sede arcivescovile di Napoli un terribile uragano si era abbattuto sull'atmosfera politico-religiosa di Francia e della Cristianità. Da alcuni secoli la Chiesa aveva conquistato una posizione direttiva di tutta la vita sociale dei popoli cristiani. Ma ora la lotta tra Bonifazio VIII, l'erede dello spirito di Gregorio VII e d'Innocenzo III, e Filippo il Bello, il monarca assertore dell'autonomia politica della propria dinastia, doveva far crollare il superbo edificio della potenza ecclesiastica da numerosi pontefici con varia fortuna e grande abilità innalzato. Bonifazio VIII non ha avuto fortuna con gli storici che di lui si occuparono. Oggetto in vita di odi inestinguibili, dopo morte gli avversari tentarono il processo contro la sua memoria ed i posteri disputarono intorno alla sua opera e non pochi la condannarono. Eppure questo pontefice, bersaglio di tante ire, compensava con grandi qualità i suoi difetti. Uno scrittore contemporaneo che fu alla sua corte e lo curò nelle malattie, [Pag. 101] Arnaldo da Villanova, asserisce che egli era dotato "intellectualitatis aquilina perspicacia, scientiarum eminens peritia, cunctarum agibilium exquisita prudentia, in aggrediendis arduis audacia leonina, in prosequendis difficilibus stabilis constantia". Qualità queste che unite ad un alto concetto del suo potere e ad un carattere ardito, tenace, resero capace Bonifazio di affrontare i nemici suoi e della Chiesa. Grande sventura per lui che aveva la tempra e la mentalità dei più grandi pontefici del medio evo, fu l'esser vissuto in tempi nei quali la potenza politica del papato, dopo aver toccato il suo culmine, declinava rapidamente alla fine. Papato e impero, i due grandi ideali che avevano animato le coscienze e suscitato tante lotte nell'età di mezzo, si avviavano a diventare, politicamente, secondo la frase del Carducci, "una mesta ruina". Di fronte a queste due istituzioni, solide ancora in apparenza, i popoli si orientavano, prima in Francia e poi negli altri paesi, verso l'unità nazionale, e non ammettevano più un potere universale, che avesse la direzione suprema della cristianità: lo stato moderno sorgeva con tutte le sue catatteristiche e finalità. Bonifacio VIII non comprese i nuovi tempi, e nella lotta contro Filippo il Bello doveva fatalmente soccombere perchè il Re di Francia era sostenuto dal sentimento nazionale del suo popolo. Ma la lotta era inevitabile. Quando due principi, l'uno della monarchia universale radicata [Pag. 102] nelle menti e nelle coscienze medioevali da lunghi secoli, l'altro della monarchia nazionale, nuovo, è vero, ma sorretto dal sentimento di tutto un popolo, quando questi due principi sono rappresentati da uomini come Bonifazio VIII e Filippo il Bello, l'urto deve necessariamente seguirne, ed il conflitto non ammette mezzi termini ma si prolunga fino alle estreme conseguenze. Le prime avvisaglie della lotta grandiosa rimontano al 1296. Da due anni Filippo il Bello che meditava la conquista della Fiandra, era in guerra con l'Inghilterra: Bonifazio VIII che, data la sua concezione politica del papato, si credeva in dovere d'intervenire in tutte le questioni d'Europa, si intromise fra i belligeranti perchè conchiudessero la pace, ed avendo invano fatto ricorso alle esortazioni, li minacciò di scomunica. Ma il suo orgoglio rimase gravemente ferito, quando i contendenti negarono a lui ogni facoltà d'ingerirsi nel governo temporale dei loro regni. Il più recalcitrante era Filippo il Bello. Quando Edoardo d'Inghilterra e Adolfo di Nassau, suo alleato, dichiararono ai legati pontifici che acconsentivano a partecipare ai negoziati di pace, il re di Francia oppose mille ostacoli e le trattative fallirono. Il denaro per fare la guerra era fornito ai due monarchi dalle chiese da essi tassate. [Pag. 103] Fin dagli anni 1179 e 1215 il terzo e il quarto concilio Lateranense avevano proibito ai principi temporali di imporre balzelli sui beni dei chierici e della Chiesa (1). Nel 1260 Alessandro IV aveva rinnovato il divieto d'imporre collette e tasse al clero. Niccolò IV nel 1291 avendo constatato che il monarca francese non aveva intenzione d'intraprendere la crociata, si era ricusato di prolungare l'indulto, concesso da molto tempo alla Casa Regnante di Francia, di levare le decime dei beni ecclesiastici a beneficio delle spedizioni in Terra Santa. A Bonifacio VIII erano pervenute suppliche dei vari prelati francesi perchè li proteggesse dalle concussioni degli ufficiali regi, ed egli a dì 24 febbraio 1296, ottenuto il consenso dei cardinali, pubblicò la bolla "Clericis laicos" nella quale, sotto pena di scomunica, si proibiva a tutti i laici, principi, re, imperatori, di imporre tributi al clero, e al clero di pagarli. Non fu però un atto di ostilità diretto in modo speciale contro Filippo il Bello: la bolla fu pubblicata contemporaneamente in Francia, in Inghilterra, in Germania. Come rappresaglia, a dì 17 agosto 1296, la cancelleria del re francese proibiva con un editto l'esportazione dell'oro e dell'argento, senza facoltà regia, fuori del Regno: neanche le oblazioni a favore della Palestina [Pag. 104] potevano più giungere a Roma. La S. Sede ne fu allarmata e corse ai ripari, mentre in Francia la maggioranza del clero o rimaneva inerte o si schierava in favore del re. Ventitre prelati scrivevano a Bonifacio VIII pregandolo di ritirare la bolla ed annunziavano l'invio di alcuni legati che dovevano recare le più ampie spiegazioni (2). Una seconda bolla del Papa che s'iniziava con le parole "Ineffabilis amor" rettificava alcuni punti della bolla "Clericis laicos" dando ad essi un'interpretazione non troppo ostile alle pretese del Re di Francia, dichiarando che in essa non erano contemplati i tributi feudali e non si proibiva di chiedere sussidi alle Chiese purchè si ottenesse prima il consenso del Papa. Il Pontefice con termini energici qualificava insensata la condotta del Re e lo ammoniva a non alienarsi le simpatie della S. Sede (3). Filippo il Bello fece allora compilare un manifesto che dovette rimanere un semplice abbozzo e probabilmente non uscì dalla Francia perchè altrimenti Bonifazio VIII ne avrebbe fatto menzione in qualche altro scritto successivo. Il Re sosteneva che tutti i cittadini, laici e chierici, [Pag. 105] nobili e plebei avessero l'obbligo di partecipare agli oneri dello Stato: e contro gli ecclesiastici incassati, impinguati et dilatati dal favore sovrano, affermava la revocabilità delle immunità e degli altri privilegi elargiti dal potere civile. La risposta di Filippo cominciava con le parole: "Antequam clerici essent, rex Franciae habebat custodiam regni sui et poterat statuta facere" (4). Si aprivano intanto le discussioni fra i giuristi del Re e quelli del Papa, fra gli scrittori regi e quelli curialisti. Ma nè Bonifazio VIII nè Filippo il Bello volevano, per il momento, impegnarsi a fondo nella lotta: ambedue avevano, bisogno di una tregua: il Papa per intraprendere la guerra contro i Colonna, il Re per ottenere la canonizzazione di Luigi IX, in Francia tanto desiderata. Con due bolle in data 5 febbraio e 31 luglio 1297, comincianti l'una con le parole Romana mater l'altra Etsi de Statu, il Papa concedeva al monarca francese l'autorizzazione a ricevere contributi dal clero inconsulto etiam Pontifice Romano, a patto che si trattasse di urgente necessità (5). Così verso la fine del 1297 la concordia fra Roma e Parigi sembrava ristabilita. [Pag. 106] Proprio in quell'anno Bonifazio affidava a Matteo d'Acquasparta e ad altri legati l'incarico di predicare la guerra contro i Colonna e i loro aderenti. Finora le Crociate erano state promulgate soltanto contro infedeli ed eretici, ora si bandivano anche contro cristiani e cattolici per fini politici. Ma nella coscienza di Bonifazio questa guerra si coloriva di un forte sentimento religioso, in quanto i nemici della sua persona erano anche ribelli dell'alta dignità di cui era investito. Per vincerli più facilmente si tentò di gettare la discordia fra i vari rami dei Colonna. Ancora ci commuove la rozza musa ispirata di Jacopone: Quando nella contrada t'aiace alcun castello / Mestante metti scretio entra frate e fratello / A l'un getti el brazzo en collo, e l'altro mostre el coltello / Seo non assente al tuo capello, menaccel de ferire (6). Quando fu libero dai Colonnesi e infervorato del successo del giubileo del 1300 che fu i l'apoteosi dell'idea cristiana e romana, il Papa riprese le ostilità contro Filippo il Bello. A dire il vero, ve lo spingeva l'astuto monarca con la sua condotta poco riguardosa dei privilegi ecclesiastici. Si pensava allora a Parigi ad una futura [Pag. 107] monarchia universale di cui il capo sarebbe stato il sovrano francese dopo avere assoggettato l'Italia, compresi gli stati pontifici, e gran parte dei paesi nordici. Si trattava di mandare ancora una volta ad effetto la vecchia idea dell'impero mondiale, ma ora questo progetto era accarezzato da una nazione forte e riunita intorno al suo re, e la sede di questa potenza universale si spostava dalla Germania in Francia. Il 24 ottobre 1301 Pietro de Flotte, consigliere del Re, accusava dinanzi al consiglio di Stato, come reo di alto tradimento, Bernardo di Saisset, vescovo di Palmiers, inviato in Francia da Bonifazio VIII per presentare al sovrano alcune rimostranze su tutte le questioni pendenti fra la S. Sede e Filippo. Il legato pontificio fu condannato ed affidato alla custodia dell'arcivescovo di Narbona. Immediatamente il Papa ai 5 dicembre dello stesso anno, imponeva la liberazione del suo ambasciatore e convocava a Roma i vescovi, i dottori e i procuratori dei capitoli di Francia perché riuniti in una grande assemblea deliberassero e suggerissiro i mezzi migliori per conservare la libertà della Chiesa e combattere gli arbitrii del re e dei suoi ministri. Inoltre il Papa pubblicava la bolla "Ausculta, fili", nella quale revocava tutti i privilegi accordati al re a proposito dell'imposizione delle decime, e ribadiva il suo concetto della supremazia del Vicario di Cristo su tutti i principi e sovrani [Pag. 108] della terra. Narrano parecchi storici che quando Giacomo Normanno, arcidiacono di Narbona, portò in Francia i decreti del papa, il conte d'Artois cugino di Filippo, fece bruciare la bolla. Vero o no il fatto, dovette correrne insistente la voce, perchè Bonifazio reclamò in seguito, anche di questo oltraggio, soddisfazione (7). Ma forse bisogna discendere attraverso i secoli, fino ai tempi di Lutero perché una bolla del pontefice romano fosse pubblicamente bruciata. In cambio della bolla di Bonifacio si sparse nel regno di Filippo un'altra breve lettera cominciante con le parole: "Scire te volumus" attribuita al papa e falsificazione probabilmente di Pietro de Flotte. In essa si teneva verso il re un linguaggio ingiurioso e si diceva che i sovrani terreni erano soggetti al pontefice nello spirituale e nel temporale. Fu anche diffusa una pretesa risposta breve ed altezzosa di Filippo a questa supposta bolla di Bonifazio. Tutti i mezzi erano buoni per aizzare contro la S. Sede l'orgoglio nazionale dei Francesi. Il 10 aprile 1302 fu convocata a Parigi l'assemblea nazionale dei tre stati del Regno. Pierre Flotte, guardasigilli del re, vi tenne un discorso a nome del sovrano. Con molta abilità egli cercò di far vibrare le corde del sentimento nazionale, accusando il pontefice di volere assoggettare il re nel temporale e di celare segreti disegni contro [Pag. 109] la Francia; poi, dopo aver dichiarato che bisognava esporre, se occerresse, la fortuna e la vita per la grandezza della patria, conchiudeva rivolgendo ai tre stati la solita formula per chiedere "auxilium et consilium contra hominem". Un cronista, Bernando Giudonis, ci assicura che il discorso suscitò molti commenti e produsse grande impressione: fit rumor magnus in toto regno, turbatio cordium et confusio rerum...". Lettere di protesta preparate per essere inviate Roma, indirizzate ai Cardinali nella speranza di gettare la divisione nel Sacro collegio, furono firmate dai nobili e dai borghesi. Il clero fece delle riserve ma finì coll'aderire alle richieste di Filippo il Bello e rivolse una lettera a Bonifazio supplicandolo di tenere una condotta benevola verso la Francia e di revocare la convocazione del sinodo. Fu vietato ai prelati di recarsi al concilio indetto dal papa sotto pena di essere dichiarati nemici del re. Ma nonostante il divieto del parlamento 6 abati, 35 vescovi, 4 arcivescovi fra cui Egidio Romano (8), uscirono dalla Francia diretti a Roma e il re confiscò i beni di questi profughi. Aperto il Sinodo ai 30 di ottobre 1302 Bonifazio pronunciò l'anatema contro coloro che avessero imprigionato, arrestato, e in qualsiasi modo recato molestia a chi andava o tornava dalla Sede Apostolica e pubblicò la Bolla "Unam sanctam" [Pag. 110] la più solenne affermazione della dottrina Teocratica del Medio Evo. Pochi mesi innanzi questo famoso concilio, mentre ferveva la contesa, Egidio Romano e Giacomo da Viterbo presentarono al papa due trattati politici dei quali ben presto ci occuperemo. Non è nostro compito tratteggiare i grandi avvenimenti che seguirono al Sinodo indetto da Bonifazio VIII e culminarono nell'insulto di Anagni. Volevamo soltanto accennare alle cause prossime che determinarono il grandioso conflitto fra il Pontefice di Roma e il Re di Francia. E passiamo senz'altro all'analisi delle opere dei tre agostiniani che ebbero il grave compito di illustrare e difendere le teorie politiche dei Pontefici romani.
NOTE
(1)
MANSI, SS. Concil. nova et amplissima collectio. T. XXII, col. 229-230 e col. 1028. Venetiis 1778.(2)
ROCQUAIN, Le Papauté au moyen age. Paris, Plon 1861, pag. 242.(3)
IDEM, Ibid., pag. 241.(4)
DUPUY, Hist. du differend entre le Pape Boniface VIII et Philippe le Bel, pagg. 21-23.(5)
DUPUY, Op. cit., pagg. 38-40.(6)
JACOPONE DA TODI, Le satire edite da Biordo Brugnoli. Firenze 1914, pag. 311.(7)
Rocquain, Op. cit., pag. 268.(8)
DUPUY, Op. cit., t. I, p. 86.
CAP. VI
IL "DE REGIMINE PRICIPUM" DI EGIDIO ROMANO
[Pag. 111]
L'opera fu dedicata a Filippo il Bello (1), non ancora cinto della corona reale, che aveva commissionato il lavoro ad Egidio (2). Vogliono unanimamente gli storici che il principe fosse allievo del filosofo agostiniano. Ma già abbiamo sostenuto (3) l'inverosimiglianza di questa notizia che a noi sembra confutata dal fatto che proprio negli anni in cui avrebbe dovuto svolgere la sua opera di pedagogo presso il giovine principe, il grande dottore abbia trascorso il suo tempo fuori di Francia, costretto a lasciare l'Università di Parigi, dopo l'acre [Pag. 112] polemica con Stefano Tempier. Per la stessa ragione noi assegneremo alla pubblicazione del trattato un anno anteriore al 1281, data del Capitolo generale tenuto dagli Eremitani di S. Agostino a Padova, al quale Egidio intervenne come definitore della provincia romana, per stabilirsi poi lungamente in Italia, sino a quasi l'assunzione al trono di Filippo IV (1285). Il De Regimine Principum fu un'opera nel Medio Evo sommamente ricercata. Conservata in numerosi manoscritti fu tradotta nelle principali lingue d'Europa (4). Ebbe l'onore di essere citata nel Convivio di Dante (5) e di aver servito come modello ai trattati congeneri dell'epoca. Nei tre libri di cui esso si compone, l'autore ha voluto esporre diffusamente le norme che devono regolare la vita morale dei sovrani e i loro rapporti famigliari, e definire l'essenza del potere regio. Potremmo chiamare Etica il primo libro del trattato, ed Economia e Politica gli altri due. Un'equazione rigorosa è posta fra le capacità di signoreggiare le proprie passioni e quella di regnare. Soltanto chi ha imparato a dominare se stesso può ascendere i gradini di un trono. [Pag. 113] Quando Egidio pubblicava la sua opera, si chiudeva l'era gloriosa dei liberi Comuni che in Italia avevano sostituito i palazzi del popolo ai castelli dei nobili. Ma educato in Francia, frequentatore della Corte dove era bene accolto per la sua scienza e le sue virtù, il filosofo agostiniano considerava la monarchia come l'ordinamento naturale della comunità, e specialmente quella monarchia che aveva sotto gli occhi, con la successione ereditaria e un sistema feudale bene sviluppato. Egidio Romano è lo scrittore da tavolino che stende con calma il suo lavoro e non isdegna di consultare i trattatisti che lo precedettero. In tutta l'opera affiorano qua e là pensieri tratti dalla Politica, dalla Rettorica e dall'Etica di Aristotele. Anche con S. Tommaso ha grande famigliarità. L'attenta lettura della seconda parte della Summa theologica di questo maestro, gli ha suggerito forse l'idea di condensare nel primo libro del De Regimine, in un compendio generale, la dottrina dell'Etica. Nelle quattro divisioni di questa prima parte del trattato, Egidio espone la teoria delle virtù umane che devono adornare l'animo di un Re, e [Pag. 114] svela quali vizi sociali, non evitati a tempo, possano condurre a rovina gli Stati favoriti dalla fortuna. Egli enumera dodici virtù morali, delle quali quattro cardinali, oggetto tutte, eccettuate la prudenza e la giustizia che appartengono all'intelletto l'una e alla volontà l'altra, dell'irascibile e del Concupiscibile (6). In queste due facoltà dell'anima, risiedono anche le quattro passioni fondamentali [Pag. 115] (spes, timor, gaudium, tristitia) e le otto derivate e secondarie che si oppongono, come contrarie, alle virtù (7). Soltanto dell'ira non si nomina il contrarium, perché il nome della virtù ad essa opposta è ignoto ad Egidio, ed egli non può attribuire alla mansuetudine tutte le qualità per affermarsi tale (8). Concordante sostanzialmente col pensiero di S. Tommaso è la teoria egidiana intorno alle Virtutes e alle Passiones. Anche il concetto che nei sovrani debbano esistere in eminentissimo grado tutte le virtù morali (9) è forse suggerito da un'espressione del filosofo d'Aquino sull'eccellenza [Pag. 116] delle buone azioni dei regnanti a Dio tanto gradite (10). La divisione delle virtù e dei vizi secondo le singole età e condizioni sociali dell'uomo, è invece ispirata dal 2° libro della Rettorica di Aristotele. Egidio considera gli abiti morali, la vita affettiva umana come qualcosa affatto naturale, il cui superamento presuppone una forza, una perfezione che eccede le capacità dell'uomo. Richiamandosi allo Stagirita egli attribuisce questa perfezione ai Sovrani (11). Ciò non è consono all'intezione espressa nell'inizio del lavoro di voler basare strettamente sui principi dell'Etica naturale, l'arte difficile di governare i popoli (12). Ma il dottore agostiniano dimentica a mano a mano [Pag. 117] il suo proposito per ispirare al giovane principe atti eroici di altissime virtù cristiane. E dice fin dal principio che la felicità dei Re è da riporsi in actu charitatis per quam immediatius coniungimur ipsi Deo, nell'amore di Dio, Bonum commune (13). E dimostrerà in seguito che l'ordine naturale s'include e si completa in quello soprannaturale, che la legge di natura ha il perfezionamento in quella del vangelo.Il secondo libro del De Regimine Principum tratta del domestico regimine del Re in rapporto alla sua consorte, ai figli, ai servi. L'uomo è per sua natura, afferma Egidio, un essere socievole (14), e più innanzi, ricollegandosi ad Aristotele e a S. Tommaso, dirà che è anche un "animal politicum". Sulla dottrina dell'uomo come individuo morale, cioè sulla monastica, e sulla dottrina della famiglia come base e fondamento delle comunità sociali e politiche, cioè sull'economista, egli fonda il sistema [Pag. 118] della vita politica, seguendo in ciò strettamente il filosofo di Stagira. E non identifica, come S. Tommaso, la comunità sociale con quella politica (15). In seguito però si riaccosta alla concezione tomistica per provare la necessità della vita sociale. L'uomo ha bisogno del vitto e del vestito per vivere e delle armi per difendersi dai nemici, ma soltanto dalla società organizzata può ottenere i mezzi necessari alla propria conservazione. Non diversamente ragiona Tommaso nel capo I del De Regimine Principum. Con un concetto felice in uno scritto pedagogico, Egidio aggiunge anche la disciplina e il sermo "per quae instruitur" come bisogni naturali dell'uomo che unicamente la vita associata può soddisfare (16). I rapporti del Re con la propria consorte sono regolati secondo le norme del Diritto e della Disciplina matrimoniale ecclesiastica. Nella concezione artistotelica seguita dal nostro scrittore, dove la realizzazione dell'universale è un processo, uno sviluppo, la famiglia forma il primo addentellato delle più alte forme dell'organizzazione umana. Egidio tratta ampiamente anche dell'allevamento dei principi e della loro educazione scientifica, e descrive l'ordinamento degli studi che abbracciava allora le sette arti liberali e le [Pag. 119] discipline più strettamente filosofiche e le teologiche e le giuridiche (17). Tale schema di ordinamento, sebbene condotto in gran parte sulle regole esposte nella Politica aristotelica, ha per noi grande interesse. L'autore però mostra da un punto di vista tutto medioevale, un'eccessiva stima della vita contemplativa e un deprezzamento del lavoro corporale. Con S. Tommaso egli ritiene che il diritto di proprietà sia indispensabile al sostentamento materiale dell'uomo, consentaneo alla sua dignità e fondato nella stessa natura (18). Perchè la società politica possa regolarmente avere il suo sviluppo e il suo perfezionamento si richiede o almeno è utile che ciascuno abbia il proprio possesso (19), e soltanto può lodarsi quella rinunzia che sia ispirata dal nobile desiderio di consacrarsi ai ministeri di religione, di abbracciare uno stato di vita moralmento più elevato. Ai rinunciatari si schiude allora un lembo di cielo in questa terra (20). [Pag. 120] Tra le proprietà che la famiglia può possedere vi sono anche gli schiavi. Egidio basa la schiavitù con Aristotele sul diritto naturale e su quello positivo. Oltre il servus nato (21), vi sono anche i servi in base a disposizione legale, specialmente prigionieri di guerra (22). Ma è evidente che egli non può avere della schiavitù gli stessi concetti che gli antichi, presso i quali lo schiavo era sinonimo di res, di homo sine capite, come lo chiamava Varrone. Non invano, la predicazione cristiana aveva stabilito da tanti secoli il principio della fratellanza universale. Ma il nostro dottore, come S. Tommaso, aveva sotto gli occhi l'esempio degli aldiones o servi della gleba che in Francia al tempo dei Merovingi e dei Carolingi erano oltremodo cresciuti, e allude alla loro servitù in senso più mite, vigente nel Medio Evo, cui molti erano condannati per pena o per diritto di guerra. Tanto è vero che oltre la naturale e la giuridica, anche la servitus adducta et delectiva è menzionata (23), quella cioè che si contraeva per mercede o per affetto al padrone, che frequentemente si verificava in quei tempi e compensava il servo della diminuzione della libertà personale con la sicurezza di essere nutrito e vestito per tutta la vita, anche nella vecchiaia e nelle malattie. [Pag. 121] L'insistenza di Egidio nel difendere la naturalità e la legalità della servitù, ci fa supporre un segreto intento di polemizzare contro il principio dei giuristi romani che la schiavitù sia contro natura, perchè gli uomini nascono uguali ed essa fu introdotta a beneficio della comunità per mezzo delle leggi (24). A costoro rispondeva S. Tommaso nella Somma, che non le istituzioni dagli uomini stabilite per l'utilità comune, sono avverse alle leggi di natura, ma quelle il cui contrario è prescritto dal diritto naturale. Altrimenti anche il vestito che è stato adottato per difenderci dalle intemperie, meriterebbe la nostra condanna (25). E la schiavitù non è certamente fondata sull'jus di natura (26), ma non è contro di essa né disforme dai dettami della retta ragione (27). Il filosofo d'Aquino cerca un compromesso fra la concezione d'Aristotele e quella dei giuristi romani. Ma non si può disconoscere che il principio da lui propugnato dell'Uguaglianza naturale di tutti gli uomini dinanzi a Dio, stabilisca una carattenstica differenza fra la sua teoria sociale e quella di Egidio che in rapporto alla servitù si mette intieramente sul terreno della filosofia greca. [Pag. 122] Il terzo libro del De Regimine Principum tratta della natura dello stato in genere, quindi del governo degli stati in tempo di pace, ed infine della guerra e del modo di condurla. Aristotele poneva una netta distinzione tra l'organizzazione sociale e quella politica. Quest'ultima è proprio la forma peculiare della vita associata naturale all'uomo, come quella che essendo la più perfetta racchiude tutte le altre forme di società. S. Tommaso non coglie la sottile differenza fra comunità socievole e politica. Provata la naturalità della prima crede dimostrata anche quella della seconda, perchè l'animal sociale è per lui equivalente all'animal politicum (28). Egidio Romano segue invece fedelmente il pensiero d'Aristotele. L'uomo è membro di due associazioni, la civile e la statale che sono indispensabili al normale svolgimento della sua vita materiale e morale. L'istituzione del linguaggio che rende possibile alle creature umane la comunicazione dei propri pensieri e quindi l'affratellamento vicendevole, prova la necessità delle due organizzazioni (29). [Pag. 123] Ma esiste nell'uomo anche un impulso nataurale che lo spinge ad associarsi politicamente (30). Soltanto un Dio o un bruto, ripete Egidio con Aristotele, vel bestia, vel quasi Deus, idest divinus, può esser concepito nella totale solitudine. E divino, dal punto di vista medioevale, è l'anacoreta che macera le sue carni nel deserto per conquistare il regno dei cieli (31). La famiglia che forma il primo momento della gerarchia morale dell'universo, si espande nel villaggio e nella città. Aristotele non può uscire dall'antico particolarismo della vita greca, e, sebbene testimone della fondazione dell'impero macedone, limita l'umanità ai confini e alle istituzioni della πολις. Piω lontano si conduce Egidio che al disopra della civitas pone il Regnum, composto di molte civitates, ultima espressione dell'organismo statale, capace di fornire il benessere al singolo e alla comunità, e specialmente adatto, per i grandi mezzi di cui dispone, alla difesa esterna (32). [Pag. 124] Ma non mostra di conoscere nè l'impero bizantino, né quello germanico cristiano come erede della potenza di Roma, e non esprime in nessuna maniera l'idea d'una monarchia universale che è perfettamente sconosciuta anche a S. Tommaso. Anzi il dottore domenicano assegna alla città, ripetendo macchinalmente un concetto di Aristotele senza riflettere che non conveniva alle monarchie del suo tempo, quel tanto territorio che basti a produrle tutti i mezzi di sussistenza senza che sia costretta a battere le vie terrestri e marittime del commercio (33). Con più profondo pensiero la civitas del filosofo agostiniano risponde al concetto di un organismo politico che sia in grado di procacciarsi, mediante lo sviluppo della propria industria e lo scambio delle merci, i mezzi per vivere e prosperare (34). [Pag. 125] Il principio di completa autonomia si ammette soltanto nell'amministrazione dei beni della corona, necessari al mantenimento della corte e alla vita sfarzosa del sovrano (35). E perciò il passo di Aristotele, nel primo della Politica, che la città sia la forma più alta delle organizzazioni statali, non deve intendersi in senso assoluto, ma in relazione al vicus e alla domus (36). Passeranno alcuni anni, e nello scritto egidiano sulla politica ecclesiastica, non soltanto il regnum, ma anche e sopratutto l'imperium avrà il suo posto tradizionale nella gerarchia dei poteri civili. Lo scrittore agostiniano ritorna, nella prima parte del terzo libro, sul concetto della proprietà privata che egli fondava, come abbiamo detto, sul diritto di natura. Ora aggiunge, in perfetto accordo con S. Tommaso, che essa è necessaria alla vita politica, e dichiara inattuabili, confutandole con gli stessi argomenti di Aristotele, le teorie socialistiche e comunistiche di Platone, Falea e Ippodamo (37). In un altro trattato scritto precedentemente egli aveva forse mostrato d'inclinare alla generale uguaglianza dei beni, ma ora dice che la contraddizione fra le sue antiche idee e le nuove è soltanto apparente [Pag. 126] e che in seguito scioglierà la difficoltà (38). Invece non ne parla più. Ma lo Scholz ha creduto trovare la soluzione di questa contraddizione nel capo 33 della seconda parte, in cui è condannato del pari il pauperismo e il soverchio accentramento delle ricchezze in mano di pochi (39). Nella teoria della miglior forma di governo, Egidio si discosta ancora una volta da Tommaso. Ambedue i maestri sostengono che la monarchia è la preferibile delle costituzioni statali, ma l'uno, l'agostiniano, pur riconoscendo di aver contro di sè l'autorità di Aristotele (40), inclina per il sistema ereditario (41), l'altro, il dottore di Aquino, non cela le sue simpatie per quello elettivo (42). Egidio però crede erroneamente di non essere in contrasto con lo Stagirita nel dare la preferenza [Pag. 127] all'autocrazia (43), e gli sfugge il vero pensiero del filosofo greco che accetta la forma di un'aristocrazia καταρετήν, secondo virtù, cioè aperta alle feconde possibilità del sistema democratico (44). Contro la degenerazione della monarchia in governo dispotico che è il peggior dei mali e può condurre a rovina il reame meglio ordinato, il nostro scrittore ammonisce severamente. Con la guida di Aristotele egli delinea i due ritratti del monarca virtuoso e di quello tiranno (45). Dall'Aquinate è ispirato il suo confronto tra il regno di Dio sulla natura e quello del sovrano sul popolo, conchiuso col dire che, essendo la politica, come l'arte, un'imitazione, il Re deve uniformare il suo al governo divino (46). Ma Tommaso concede [Pag. 128] al popolo la facoltà di sbarazzarsi di un cattivo principe per mezzo della rivoluzione (47), ed Egidio neanche sfiora quest'argomento per non offendere la suscettibilità del principe cui indirizzava il trattato. Al quale egli rivolge anche il consiglio di favorire le lettere e le scienze (48), necessarie al perfezionamento intellettuale della società. Sebbene questa idea sia contenuta nella Politica di Aristotele (49) possiamo supporre che il filosofo agostiniano, baccelliere allora dell'università parigina, abbia rivolto questa esortazione indipendentemente dallo Stagirita, traendo suggerimento dalla propria esperienza. Egli insiste anche sulla necessità della scelta di saggi consiglieri che siano di aiuto al Re nel disbrigo degli affari (50). Compito principale del consiglio della corona [Pag. 129] è provvedere all'economia e alle finanze dello stato e di aver cura dell'esercito (51). Sotto l'influsso aristotelico, con una sensibilità politica ammirevole per quei tempi, Egidio solleva questi problemi importantissimi che Tommaso neanche menziona. Principe e consiglieri hanno anche il dovere d'impedire i pericoli e gli errori di una legislazione arbitraria e quindi di procurare al regno la forza legale di leggi giuste e saggie. Una teoria del diritto è qui svolta che si discosta da quella di Aristotele ma si avvicina a quella dell'Aquinate. Il quale com'è noto, cercò di armonizzare due nozioni del diritto natutale non del tutto conformi che dividevano le scuote dei giuristi del suo tempo. Mentre la prima riconosceva l'ius naturale, restringendolo agli uomini e ignorava completamente l'ius gentium, la seconda distingueva fra il diritto di natura e quello delle genti. I sostenitori dell'una vantavano l'autorità di alcuni filosofi, principalmente di Aristotele, quelli dell'altra si appoggiavano alla dottrina dei cultori del diritto canonico che a loro volta l'avevano attinta da Ulpiano (52). [Pag. 130] Trovare un termine discretivo che potesse servire a differenziare l'ius gentium da quello naturale aristotelico non era impresa facile. Ma S. Tommaso nella Somma teologica, derivando dalla legge di natura il diritto delle genti come conclusione dalla sua premessa, fissò nell'ius naturale le origini dell'jus gentium (53). Da questa concezione prende le mosse Egidio per svolgere con chiarezza e acume la sua teoria, risalendo nella storia del diritto sino agli antichi. Aristotele divise l'ius in scriptum, e non scriptum, commune e proprium, natumle e legale o positivum, i giuristi romani in naturale, gentium e civile. Facendo tesoro di queste classificazioni, il nostro dottore distingue l'ius naturale, jus animale, gentium e civile (54), [Pag. 131] e due leggi, la naturalis, cui applica la definizione aristotelica del giusto, id ad quod hominem natura inclinat, e la positiva che ha l'origine dal pactum o institutio hominum, derivando ambedue le leggi dal duplex iustum naturale e legale che egli trovava nell'Etica Nicomachea (55). L'ius naturale che abbraccia la somma di tutte le relazioni del diritto poggianti sugli istinti naturali, conserva il suo nome se questi ultimi sono comuni a tutti gli esseri viventi, ma si appella [Pag. 132] jus gentium se le inclinazioni sono limitate alla natura dell'uomo (56). E al disopra di questi diritti vi è ancora un terzo speciale jus naturale che riguarda gl'istinti che noi abbiamo comuni non soltanto con gli altri animali, ma con tutti gli esseri, quali sarebbero la tendenza al bene, la repugnanza al male e molti altri (57). Anche da questa sommaria esposizione si può comprendere la profonda cultura giuridica del filosofo agostiniano. Da nessun autore medioevale è così nettamente separato come da lui l'jus gentium come parte del diritto naturale dal diritto positivo e civile. Egidio vuole anche nuovamente discutere la questione aperta da Aristotele se la comunità sia meglio governata da un eccellente signore oppure da una buona legge. Il filosofo antico l'aveva [Pag. 133] risoluta nel senso favorevole alla legge, ma il nostro scrittore distingue fra la lex naturalis e quella emanata dagli uomini: soltanto la prima può essere l'autorità decisiva, l'altra, anche se giusta, ha sempre meno valore del giudizio di un virtuoso monarca (58). Inoltre tutte le leggi, positive e naturali, devono essere completate e perfezionate da quella divina ed evangelica (59), di cui naturalmente depositaria ed interprete è la Chiesa, potenza spirituale. E così l'intiero ordinamento degli interessi terreni e temporali della umana società deve tendere a Dio penetrandosi dello spirito cristiano. Negli ultimi cinque capitoli della seconda parte del terzo libro Egidio riepiloga le sue vedute sull'ideale di uno stato. Il modello di organizzazione politica che egli vuole indicare all'erede del trono di Francia, è pur sempre medioevale. Ma qua e là affiorano idee, come abbiamo veduto, che precorrono i tempi. Anche in questi capitoli egli esprime concezioni degne di rimarco. Come quando, sotto l'influsso aristotelico, pronunzia la richiesta di una restrizione nella libertà di alienazione delle eredità per impedire l'accentramento [Pag. 134] delle ricchezze, motivando la sua proposta dal fatto che più felice è lo stato quando più numerosa è la classe delle persone moderatamente agiate, cui il Re deve largire preferibilmente i suoi favori (60). Nell'ultima parte del terzo libro Egidio tratta diffusamente del governo della civitas in tempo di guerra ed espone ampiamente il modo di armare gli eserciti, fortificare le città, condurre le operazioni militari. Ma la sua dottrina intorno a questi soggetti è appresa dalla lettura degli scritti di Vegezio e non ha per noi grande interesse. La base dottrinale del De Regimine Principum è, come abbiamo veduto, aristotelico-tomista. Pochi anni avanti la pubblicazione di questo trattato, Tommaso di Aquino aveva scritto anch'egli un'opera con lo stesso titolo che non protrasse, secondo il giudizio quasi unanime degli storici moderni, oltre il capo quarto del secondo libro. Il completamento dell'opera è attribuito al suo discepolo Bartolomeo da Lucca. Egidio Romano che aveva seguito a Parigi i corsi di lezioni dell'Aquinate non poteva ignorare questo lavoro del suo maestro. [Pag. 135] E perciò crediamo opportuno insistere ancora sul raffronto dei due trattati, dei quali mostrammo già le concordanze e le divergenze. E' certo per noi che mentre l'agostiniano attingeva nei primi libri dell'opera tomistica, il continuatore di S. Tommaso abbia conosciuto e a sua volta adoperato i trattati politici del nostro filosofo. Non ci sembra infatti casuale che, mentre nei primi due libri del "De Regimine" pubblicato con il nome dell'Aquinate, l'argomento svolto riguardi il governo della civitas, nel terzo si cambi bruscamente il piano del lavoro e si tratti della monarchia universale spirituale che fu presa a soggeno da Egidio nel "De Potesate Ecclesiastica". Ancora più visibile è l'influsso egidiano nel 4° libro dove si prosegue l'esposizione delle diverse specie dei Regimina del 3° libro, si definisce il Regimen Politicum e si combattono, a somiglianza di quanto ha fatto il dottore eremitano, le teorie politiche e sociali di Socrate, Platone e Ippodamo. Una differenza fra i due scrittori l'abbiamo trovata nel modo di valutare le forme di governo. Mentre nelle parti principali dell'opera tomistica si rileva una certa predilezione per le libere istituzioni politiche, nel trattato di Egidio è chiaramente manifestata la preferenza per le monarchie ereditarie e per i governi aristocratici. [Pag. 136] Forse il fatto si può spiegare pensando ai diversi paesi nei quali i due scrittori componevano i loro trattati. S. Tommaso scriveva probabilmente in Italia, terra dei liberi stati retti a repubblica che furono per tutto il Medio Evo il centro della storia europea; l'altro, Egidio, sebbene italiano, trasferitosi sin dall'infanzia a Parigi, si era imbevuto delle idee dominanti in quella nazione governata da un Re assoluto, agitata dal miraggio imperialistico di un'egemonia sull'Europa. Molti anni dopo il grande filosofo tornava a trattare di politica nel "De Potestate ecclesiastica", ma le sue idee erano intieramente cambiate. Pochi esempi ci offre la storia di così radicale mutamento d'indirizzo intellettuale. La base aristotelico-tomista fu totalmente abbandonata ed Egidio s'ispirò alle concezioni agostiniane e gregoriane. Ma prima di passare all'analisi della seconda opera dell'insigne agostiniano, dobbiamo dare uno sguardo, sia pur fugace, al pensiero politico del suo tempo, quale l'hanno a noi tramandato i trattatisti dell'epoca.
NOTE
(1)
De Regim. Princip. Prologo: "Ex regia ac sanctissima prosapia oriundo suo Domino speciali Domino Philippo primogenito et haeredi praeclarissimo viri Domini Philippi Dei gratia illustrissimi Regis Francorum. Suus devotus Fr. Aegidius Romanus Ordinis Fratrum Eremitarum S. Augustini, cum recommendatione seipsum et ad omnia famulatum", (Edizione edita da Fr.Girolamo Sammaritano, 1607, presso Bartolomeo Zannetto).(2)
Ibid. Quare si vestra generositas gloriosa nos amicabiliter requisivit de eruditione Principum, sive de Regimine Regum quemdam librum componerem ecc.(3)
Cfr. p. 27.(4)
Si hanno versioni in francese e in italiano, in catalano, portoghese, spagnolo e persino in ebraico. Cfr. G. BOFFITO, Saggio di Bibliografia Egidiana, pagg. 7-10.(5)
II, 13.(6)
In intellectu est prudentia. In voluntate iustitia. In irascibili est Fortitudo, Mansuetudo, Magnanimitas et Magnificentia, quae sic accipiuntur: quia Fortitudo et Mansuetudo sunt circa passiones ortas ex malis, ut Fortitudo est circa passiones ortas ex malis futuris, Mansuetudo circa passiones ortas ex malis praesentibus. Magnificentia vero et Magnanimitas sunt circa bona ardua, aliter et aliter: quia Magnificentia est circa magna bona utilia, ut circa magnos sumptus: Magnanimitas vero circa magna bona honesta, ut circa magnos honores. In concupiscibili autem sunt sex virtutes: videlicet Temperantia, Liberalitas, Honoris amativa, Veritas, Affabilitas et Eutrapelia: quae sic accipiuntur, quia tres harum, ut Temperantia, Liberalitas et Honoris amativa, sumuntur secundum bonum hominis in se: aliae vero tres, secundum bona hominis in ordine ad alium: secundum ergo utraque bona, sunt tres virtutes. Nam bona hominis in se tria sunt: nam quaedam sunt delectabilia, circa quae est Temperantia: quaedam utilia, circa quae est Liberalitas: quaedam honesta, circa quae est honoris amativa. Sic etiam bona in ordine ad alium tripliciter possunt considerari; vel ut deserviunt nobis ad manifestationem, et hic est vcritas; vel ad vitam, et sic est affabilitas: vel ad ludum, et sic est Eutrapelia. De Regimine Principum I, ps. 2, c. 3, pp. 55-56.(7)
Praedictae ergo passiones sic distinguuntur: quia primae sex videlicet, amor, odium, desiderium, abominatio, delectatio et tristitia pertinent ad concupiscibilem: reliquae vero sex ad irascibilem spectant. Ibid., ps. 3, c. 1, p. 154. S. Tommaso ritiene che all'irascibile spettino sole cinque (spes, desperatio, audacia, timor, ira) e non sei passioni.(8)
Ibid., I, ps. 3, c. 1, pp. 153-154. Computabatur enim supra mansuetudo inter virtutes: sed hoc est propter vocabulorum penuriam, ut ait Philosopus 4, Ethic. Mansuetudo enim proprie nominare videtur passionem oppositam irae. Sed cum sit quaedam virtus inter iram et mansuetudinem, quia virtutem illam proprio nomine nominare nescimus, nominamus eam nomine mansuetudinis, eo quod illa virtus plus comunicat cum mansuetudine, quam cum ira. Erit mansuetudo aequivocum ad virtutem, et ad passionem oppositam irae. Si quis autem laborare vellet, cuilibet posset invenire nomen proprium.(9)
Ibid., I, ps. 2, c. 31, p. 143, Quare sic decet Reges et Principes esse quasi semideos, et habere virtutes perfectas: decet eos habere omnes virtutes, quia perfecte una virtus sine aliis haberi non potest.(11)
EGIDIO, De Regim. Princip., I, ps. 2, c. 4, pag. 57. Sunt etiam quaedam bonae dispositiones, quae sunt supra virtutem, cuiusmodi est virtus divina, sive virtus heroica et superiusta, de qua determinatur 7 Eth. Nam sicut aliqui homines sunt sicut bestiae, et sunt mali ultra modum hominum: sic aliqui sunt quasi divini, et sunt boni supra modum propter quod tales supervirtuosi dici possunt. Huiusmodi autem virtutem divinam, quae est quodammodo super virtus, maxime habere debent Reges et Principes, qui (ut dictum est) semidii esse debent.(12)
Ibid., Prolog., pp. 1-2, de regimine Regum quemdam librum componerem, quatenus gubernatione regni secundum rationem et legem diligentius circumspecta polleretis regimine naturali.(13)
Ibid., I, ps. 1, c. 12, p. 39. Cfr. THOM., De Regim. Princip., I, cc. 7-8.(14)
Ibid., II, ps. 1, c. 1, p. 218. Quare si sic naturale est, hominem esse animal sociale: recusantes societatem et nolentes civiliter vivere, ut supra in primo libro tetigimus, et ut infra tangentur, quasi non vivunt ut homines.(15)
TOM., De Regim. Princip., I, 1.(16)
EGID. ROM., De Regim. Princip., II, ps. I, p. 215.(17)
Ibid., II, 2 ps., c. 8, pp. 306-310.(18)
Ibid., II, 3 ps., c. 5, pp. 359-361.(19)
Ibid., II, 3 ps., c. 6, pp. 361-363.(20)
Ibid., II, 3 ps., c. 5, p. 360. Habere ergo dominium rerum exteriorum est quodammodo homini naturale: quia natura produxit hujusmodi sensibilia propter hominem. Sumus enim quodammodo nos finis omnium, ut dicitur secundo politicorum, qui ergo talibus abrenunciat, et proponit vivere absque dominio exteriorum rerum, non proponit vivere ut homo, sed eligit sibi vitam coelestem, et supra hominem.(21)
Ibid., II, 3 ps., c. 13, pp. 380-382.(22)
Ibid., II, 3 ps., c. 14, pp. 383-384.(23)
Ibid., II, 3 ps., c. 15, pp. 385-386.(24)
Inst. I, 2, 2: 3, 1-3: 1, 4: Dig. I, 5.(25)
Summa theol., II, 1, qu. 94, an. 5 ad tertium.(26)
Ibid., II, qu. 64, 2: Homo est naturaliter liber et propter se ipsum existens.(27)
Ibid., II, 2, qu. 57, 3 ad secundum.(28)
THOM., De Regimine Principum, I, 1.(29)
EGID. ROM., De Regim. Princip., III, 1, ps. c. 4, 408-410.(30)
Ibid., p. 140. Inest ergo hominibus impetus naturalis ad vivendum politice, et ad constituendam civitatem. Sed cum id, ad quod habemus impetum naturalem, sit secundum naturam, oportet civitatem esse quid naturale, vel esse aliquid secundum naturam.(31)
Ibid., III, 1 ps., c. 3.(32)
Ibid., III, 1 ps., c. 5, p. 412. Cum ergo regnum sit quasi quaedem confederatio plurium civitatum eo quod uniantur sub uno rege, cuius est quamlibet partem regni defendere et ordinare civilem potentiam aliarum civitatum ad defensionem cuiuslibet civitatis regni: si contingat eam ab extraneis impugnari, propter faciliorem defensionem et tuitionem utile fuit ex pluribus communitatibus politicis constituere communitatem unam regni.(33)
THOM., De Regimine Principum, II, 3. Oportet autem ut locus construendae urbi selectus non solum talis sit qui salubritate habitatores conservet, sed ubertate ad victum sufficiat... Dignior enim est civitas, si abundantiam rerum habeat ex territorio proprio quam si per mercatores abundet.(34)
EGID. ROM., De Regim. Princip., III, 1, ps. c. 5, p. 411. Non sic intelligendum est, quod semper oporteat civitatem ex propriis possessionibus habere omnia quae requiruntur ad vitam: sed sufficit civitatem sic esse sitam, quod per mercationes, et ponderis portativam, et per humanam industriam faciliter habere possit sufficientia vitae.(35)
Ibid., II, 3 ps., c. 12, pp. 379-380.(36)
Ibid., III, 1 ps., c. 1, pp. 401-403.(37)
Ibid., cc. 7-20, pp. 416-450.(38)
Ibid., c. 18, p. 443. Meminimus tamen, nos edidisse quendam tractatum, De Differentia Ethice Rhetoricae et Politicae, ubi dicta superficialiter considerata contradicere videntur his quae nunc diximus. Sed illa controversia infra tolletur.(39)
RICHARD SCHOLZ, Die publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII in Kirchenrechtliche Abhandlungen her von Ulrich Stultz. Stuttgart, Enke 1903, pag. 69.(40)
De Regimine Principum, III, 2 ps.c. 5, p. 462.(41)
Ibid., p. 461. Quia ut plurimum homines habent corruptum appetitum, consideratis gestis et conditionibus hominum, quas experimentaliter videmus, videtur esse censendum magis espedire, regno vel civitati, ut dominus praeficiatur per haereditatem, quam per electionem.(42)
Summa theol., I, 2, qu. 105, art. 1.(43)
De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 4. Non enim intelligendum est, simpliciter fuisse de intentione Philosophi, dominium plurium esse commendabilius dominio unius, dum tamen utrumque sit rectum, cum ipse pluries dicat in eisdem politicis, regnum esse dignissimum principatum: inter principatus enim rectos, principatus unius, qui dicitur regnum, est optimus: inter perversos vero principatus, principatus unius, qui communi nomine tyrannis nuncupatur est pessimus.(44)
Polit., IV, 7, 1293, b. 1.(45)
De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 6 e c. 12.(46)
THOM., De Regimine Principum, I, 12. Hoc igitur officium Rex se suscepisse cognoscat, ut sit in regno sicut in corpore anima, et sicut Deus in mundo. EGID. ROM., De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 8. Nam si natura tota administratur per ipsum Deum, qui est Princeps summus, et Rex regum, quo rectissime regitur universa tota natura: quare a regimine, quod videmus in naturabilibus, derivari debet regimen regum: est enim ars imitatrix naturae.(47)
Summa theol., II, 2, qu. 42, art. 2 ad tertium. Dicendum quod regimen tyrannicum non est iustum: quia non ordinatur ad bonum commune, sed ad bonum privatum regentis, ut patet per Phil., in 3 Polit., (cap. 5), et in 8 Etic. (cap. 10): et ideo perturbatio huius regiminis non habet rationem seditionis: nisi forte quando sic inordinate perducatur tyranni regimen, quod moltitudo subjecta maius detrimentum patitur ex perturbatione consequenti, quam ex tyranni regimine: magis autem tyrannus seditiosus est, qui in populo sibi subjecto discordias et seditiones nutrit, ut totius dominari possit.(48)
De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 8.(49)
Polit., VIII, c. 11, 1314a 14.(50)
III, 2 ps. c. 18.(51)
III, 2 ps. c. 19.(52)
Cfr. ADRIANO BERNAREGGI. La filosofia del diritto internazionale in S. Tommaso, pag. 197 nel volume "S. Tommaso d'Aquino" pubblicato nel sesto centenario della canonizzazione a cura dell'Univesità Cattolica del Sacro Cuore. Milano, Società Editrice Vita e Pensiero, 1923.(53)
Summa theol., II, 2, qu. 57, art. 3. Ius sive iustum naturale est, quod ex sui natura est adaequatum vel commensuratum alteri. Hoc autem potest contingere dupliciter: uno modo secundum absolutam sui considerationem...alio modo... secundum aliquid quod ex ipso sequitur... Absolute apprehendere aliquid non solum convenit homini sed etiam aliis animalibus. Et ideo jus naturale secundum primum modum commune est nobis et aliis animalibus. A jure autem naturali sic dicto recedit ius gentium... quia illud omnibus animalibus, hoc solum hominibus inter se oommune est. Considerare autem aliquid comparando ad id quod ex ipso sequitur est proprium rationis et ideo hoc idem est naturale homini secundum rationem naturalem quae hoc dictat. E nella 1.a 2.ae, qu. 95, art. 4. S. Tommaso svolge lo stesso concetto, derivando l'jus gentium dalla legge naturale "sicut conclusiones ex principiis". Cfr. ADRIANO BERNAREGGI, loc. cit., pag. 199.(54)
De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 24. Possumus autem tam de lege quam de iusto quinque distinctiones facere, quarum duae tangantur 1, Reth. tertia ponitur 5. Ethic. quarta traditur a Iuristis, quintam nos ipsi superaddere possumus. Distinguitur enim jus, quia quoddam est scriptum et quoddam non scriptum: quoddam est commune, quoddam proprium: quoddam est naturale, quoddam legale sive positivum. Has autem tres distinctiones juris Phil. tradidit: sed iuristae quarto modo jus distinxerunt, dicentes quod est quoddam jus naturale, quoddam jus gentium, et quoddam civile. Illo ergo modo quo iuristae separant jus naturale a jure gentium, possumus separare nos jus naturale a jure animalium: et dare quintam distinctionem juris, dicendo quod quadruplex est jus, videlicet naturale, animalium, gentium et civile.(55)
Ibid. Distinctiones quas fecimus de jure sive de iusto, facere possumus de ipsa lege. Ut ergo haec omnia melius patefiant et ut has diversitates ad concordiam reducamus, sciendum quod duplex est lex naturalis et positiva. Dicuntur iusta naturalia, quae sunt adaeguata et proportionata, ex natura sua, vel dicuntur iusta naturaliter quae dictat esse talia ratio naturalis, vel ad quae habemus naturalem impetum et inclinationem. Iusta vero positiva dicuntur, quae non ex natura sua, sed ex pacto hominum vel ex institutione iusta iudicantur.(56)
Ibid. c. 25. Si igitur ea sunt de jure naturali, ad quae habemus naturalem impetum et inclinationem: huiusmodi naturalis impetus vel sequitur naturam nostram, ut sumus homines, et ut differimus ab animalibus aliis, et tale jus appellatur jus gentium. Si vero inclinatio illa sequatur naturam nostram, ut convenimus cum animalibus aliis, sic dicitur esse jus naturale.(57)
Ibid. Sed si ut convenit cum omnibus entibus, sic habet esse jus illud, quod per antonomasiam dicitur esse naturale. Appetere enim esse et bonum, et fugere non esse et malum, quod naturaliter appetimus, prout natura nostra convenit cum omnibus entibus, sic est de jure naturali: a quo caeterae aliae regulae, et caeterae leges, sive sint naturales sive civiles, summunt originem, et in eo fundantur; nam in omnibus attenditur vel consecutio boni vel fuga mali.(58)
Ibid. c. 29. Si loquamur de lege naturali patet hanc principaliorem esse in regendo, quam sit ipset Rex: eo quod nullus sit rectus Rex nisi in quantum innititur illa lege... Sed si loquamur de lege positiva melius est regi optimo Rege quam optima lege.(59)
Ibid. c. 30.(60)
Ibid. c. 33.
CAP. VII.
LE TEORIE POLITICHE NELL'INIZIO DEL SECOLO XIV
[Pag. 137]
I sistemi politici dell'età di mezzo sono da un quarto di secolo l'oggetto delle ricerche e delle discussioni appassionate di numerosi cultori delle scienze storiche e filosofiche. Furono dapprima studiati i principi giuridici che formarono il sustrato di queste dottrine, si passò poi all'esame della loro realizzazione nel campo economico ed amministrativo, infine s'investigò profondamente il problema delle relazioni fra chiesa e stato. In questi ultimi anni alcuni scrittori rivolsero la loro attenzione all'origine e allo sviluppo del potere papale, tratteggiandone in ampie sintesi d'insieme, le diverse fasi di formazione e di affermazione, e lumeggiando l'intima connessione della politica con la teologia e filosofia di allora. Il movimento dottrinale prodottosi in Francia e in Italia intorno a Filippo il Bello e Bonifacio VIII, è stato particolarmente messo in luce. Ma l'indole di questo lavoro non mi permette di tentare un largo sunto delle diverse tappe percorse dal pensiero teologico nel Medio Evo prima di sboccare nelle grandi affermazioni teocratiche d'Innocenzo III [Pag. 138] e dei suoi successori. Mi limito a tracciare un breve quadro sintentico delle posizioni dottrinali delle scuole filosofico-politiche che fiorirono durante il regno di Filippo il Bello, rimandando i lettori che desiderassero più ampie notizie sull'argomento ad un lavoro recente di Iean Rivière (1). Il periodo che va dalla fine del secolo XI al principio del secolo XIV, segna il tempo dello splendore maggiore del potere teocratico nel Medio Evo. Forti della missione universale e dell'origine divina della Chiesa, i Sommi Pontefici, nel corso dei secoli, avevano conquistato la direttiva della vita sociale e politica dei popoli cristiani. Dopo quasi trecento anni dalla morte di Gregorio Magno, Niccolò I gettava le basi della potenza teocratica e in seguito Gregorio VII la consolidava ed accresceva, ed Innocenzo III la portava all'apice della grandezza. Già prima che tramontasse la gloria di Roma, gli ordinamenti della Chiesa si erano venuti modellando su quelli dell'Impero: poi, durante e dopo gli stanziamenti germanici nei paesi latini, il vescovo romano a poco a poco occupava il posto dell'imperatore e a lui si rivolgevano nei bisogni e nei pericoli le popolazioni italiane. A mano a mano intorno al Pontefice si forma una corte, come già intorno all'imperatore i ministri del [Pag. 139] Papa hanno i titoli e le funzioni dei ministri della corte di Bisanzio: lo stesso formulario regola gli editti delle due cancellerie, la pontificia e l'imperiale: alcune disposizioni del Digesto: "Quod Principi placet, legis habet vigorem", "Princeps legibus solutus est", che una volta si applicavano ai reggitori dell'Impero, si riferiscono ora ai vescovi di Roma: la Chiesa è l'erede dell'impero, il sommo pontefice il successore dell'imperatore. Poi si fa un passo più innanzi, la chiesa diventa superiore all'impero. Essendo l'uomo composto di anima e di corpo, l'umanità ha bisogno di due guide, una temporale, l'altra spirituale: dell'imperatore e del papa. Ma l'anima è superiore al corpo, lo spirito alla materia, quindi, data la tendenza del Medio Evo all'unità, i due poteri non possono rimanere lungo tempo uguali, ma diventerà superiore quello spirituale che tanto avanzerà il temporale quanto l'anima sarà più eccellente del corpo (2). Dapprima il pontefice si contenta di consacrare e incoronare gl'imperatori, poi esige da essi il giuramento di fedeltà come vassalli al loro signore. "Numquid ego, dirà Bonifazio VIII ai messi di Alberto Tedesco, numquid ego summus sum Pontifex? Nonne ista est cathedra Petri? [Pag. 140] Nonne possum jura Imperii tutari? Ego sum Caesar, ego sum Imperator"(3). E il fiero pontefice aveva al fianco la spada e in capo il diadema imperiale. Sorgono intanto i grandi ordini monastici che riformano i costumi corrotti della società: la cavalleria, all'apogeo della gloria, si schiera a difesa del Re, della donna, dell'altare: i crociati ristabiliscono i vincoli di commercio e di cultura con l'Oriente: a Parigi, a Bologna, ad Oxford, nelle principali città di Europa si fondano le Università da cui si bandiscono le nuove conquiste del pensiero. Irnerio e tutta una legione di giuristi compiono una delle più grandi rivoluzioni storiche, abrogando gli statuti barbari longobardi, franchi, alemanni e riformando il diritto secondo i testi dell'antica giurisprudenza. La fede religiosa dei popoli innalza le meravigliose cattedrali gotiche, l'amore di libertà crea il Comune. E' tutta una nuova civiltà che sboccia dopo i secoli ferrei della barbarie, a cui i pontefici di Roma danno un grande impulso. Sotto Innocenzo III la potenza politica dei papi è portata ai supremi fastigi. Poi essa decade, le grandi istituzioni civili e religiose dell'età di mezzo tralignano: alla teoria e al trionfo di un grande potere universale teocratico che dia alle singole nazioni un'impronta comune di [Pag. 141] civiltà, subentra il concetto e la fondazione dello Stato moderno, basato su due elementi di una collettività più ampia della polis antica e più salda dello stato medioevale. Con Bonifacio VIII crolla irrimediabilmente il superbo edificio politico che tanti papi con mirabile tenacia di propositi e di opere avevano innalzato, sebbene questo pontefice nelle Decretali composte nel 1298, nelle varie Bolle emanate durante il suo pontificato e specialmente in quella che s'inizia con le parole "Unam sanctam" fosse il più spinto assertore della dottrina teocratica medioevale. Al sistema politico curialista, difeso con tanta energia e passionalità dai tre monaci agostiniani Egidio Romano, Giacomo da Viterbo, Agostino Trionfo, si opponevano due distinte correnti d'idee: l'imperialismo degli scrittori ghibellini con a capo Dante, e la scuola francese di Filippo il Bello. Quest'ultima combatte tanto il papato quanto l'impero, perchè vuole rivendicare l'indipendenza della Francia da ambedue queste ormai vecchie istituzioni. Giovanni da Parigi è il più autorevole rappresentante di questa scuola, e Pierre du Bois il gazzettiere più popolare. Gli scritti di questo strano e sbrigliato pubblicista sono per noi un indice eloquente dello stato d'animo dei francesi negli albori del secolo XIV. Nella prima parte della "Summaria brevis et compendiosa doctrina felicis ezpeditionis et [Pag. 142] abbreviationis guerrarum ac litium regni francorum" (4). Pierre du Bois afferma che il mondo è d'accordo nel desiderio di sottoporsi al dominio della Francia (5). Questa aspirazione del mondo intiero si potrebbe effettuare se il Re di Sicilia si facesse interprete presso il pontefice della volontà dei sovrani francesi di essere nominati senatori di Roma e signori del patrimonio di S. Pietro con il diritto all'omaggio e all'obbedienza di tutti gli altri monarchi. I pontefici, ai quali verrebbe assegnata una rendita corrispondente all'entrate che essi percepiscono dai loro stati, sarebbero in tal modo liberi dalle cure mondane, dalle guerre e dalle necessità di lanciare continuamente scomuniche per fini politici e un'infinità di anime che vanno ora all'inferno perché colpite dalle censure ecclesiastiche, sarebbero invece salve (6). Padrone degli stati pontifici, il re francese lo diventerà ancora della Lombardia, ricca provincia, soltanto di nome dipendente dai sovrani di Germania, i quali, non potendo sottometterla, dovrebbero cederne i diritti alla [Pag. 143] Francia. L'impero d'Oriente si potrebbe ottenere facilitando il matrimonio tra uno dei principi reali francesi e l'ereditiera del trono di Costantinopoli (7), ed anche la conquista della Spagna, dell'Ungheria, della Germania, non sarebbe soverchiamente difficile purché si seguissero i suggerimenti dello scrittore. Nella seconda parte dell'opera, dopo una carica a fondo contro l'ordinamento dei tribunali ecclesiastici e l'estensione della loro giurisdizione, Pierre du Bois dedica alcune pagine alle armi spirituali che la Chiesa possiede. Egli non sembra preoccuparsi troppo della scomunica. Se la politica del Re dovesse arrestarsi dinanzi alle minacce delle censure ecclesiastiche, il potere civile dipenderebbe, in questa terra, da un altro potere a lui superiore e ne seguirebbero inconvenienti gravissimi (8). E non si ferma qui, ma discute e critica la disciplina ecclesiastica e molte leggi stabilite dalla Chiesa. Non abbiamo noi le prescrizioni dell'antico e del uovo Testamento? Perché moltiplicare gli obblighi e i divieti quando né gli apostoli, nè gli evangelisti li hanno autorizzati con il loro esempio? Egli si preoccupa anche dell'altra vita. Quante anime donate a Satana con queste leggi sempre trasgredite! (9). [Pag. 144] Più moderato e scientifico è il linguaggio di Giovanni da Parigi. Il celebre domenicano in perfetto accordo con gli imperialisti e con Dante, sostiene che la potestà civile non deriva dal Papa, nè assolutamente (cioè, come dirà poi Agostino Trionfo, in quanto all'institutio e all'auctoritas), nè riguardo all'esecuzione (10), ma deriva immediatamente da Dio che elegge la persona da investirsi della regia dignità. Il fine della Chiesa essendo spirituale è certamente superiore al fine delle potestà terrene, ma non ne consegue che al Sommo Pontefice sia stato affidato il governo temporale dei laici e dei loro beni, perché diversa è la natura dei due poteri. E non in tutte le cose, dice Giovanni da Parigi, la potestà secolare è inferiore a quella spirituale, ma nel temporale è maggiore, e nella sfera del suo dominio, gode di una piena indipendenza (11). La tesi della scuola francese concorda qui mirabilmente con la dottrina imperialistica di Dante che nella Monarchia volle decisamente sostenere la sovranità assoluta della Chiesa nel campo spirituale e quella dell'Impero nel campo secolare, insieme alla coordinazione di ambedue [Pag. 145] i poteri, ciascuno nella propria sfera di azione. Concorda anche con gli altri scrittori ghibellini. Cino da Pistoia lasciò scritto che "a Deo procedit imperium et sacerdotium: ergo temporaliter sub Imperio omnes populi, omnes reges sunt, sicut sub Papa sunt spiritualiter" (12). La dottrina di Dante e di Cino da Pistoia fu propugnata da Enghelbert, Abate d'Admont, nel suo libro "De ortu et fine romani imperii" (13), scritto probabilmente nel 1310; da Landolfo o Rodolfo Colonna nell'opuscolo "De translatione imperii" (14), di cui si giovò, per il fondo storico, senza però accettarne l'idea della necessità dell'impero, Marsilio da Padova nel trattato pubblicato con lo stesso titolo nel 1325 o 1326, durante le lotte fra Ludovico il Bavaro e Giovanni XXII: dall'anonimo autore della "Quaestio an Romanus Pontifex potuerit treguam indicere Principi Romanorum". L'accordo fra le due scuole viene spezzato quando Giovanni da Parigi combatte, per salvaguardare l'indipendenza della corona francese, la monarchia universale. Egli asserisce che non soltanto non è necessario l'impero, ma "è meglio che più gruppi di uomini [Pag. 146] formino più regni" (15), perchè quanto il regno è più esteso, tanto è più difficile mantenervi la pace. In ogni modo, sia o no necessaria la monarchia universale, la Francia può, contro di essa, far valere il diritto di prescrizione, perchè le popolazioni galliche resistettero sempre ai Romani e Costantino non comprese la Gallia nell'atto di donazione. Questo concetto di prescrizione, nuovo nella letteratura politica di quell'epoca, e quello dell'indipendenza della Francia di fronte all'Impero, viene messo in luce da tutti i trattatisti di Filippo il Bello: da Raoul de Presle nella "Quaestio in utramque partem pro et contra pontificiam potestatem", all'anonimo della "Quaestio de Potestate Papae" e all'autore della "Disputatio super potestate praelatis Ecclesiae atque principibus terrarun commissa". Pierre du Bois fa un passo più innanzi, come abbiamo veduto, e sposta la sede dell'impero dalla Germania alla Francia. Il 12 ottobre 1303, divorato da febbre ardente, dopo aver solennemente recitato la sua professione di fede, Bonifazio VIII passava a miglior vita. Il dramma di Anagni aveva fiaccato il [Pag. 147] suo corpo e il suo spirito e segnato la fine della potenza politica dei papi. Gli animi di quell'epoca tanto agitata, dovettero intuire che con l'epilogo della lotta fra il pontefice e il Re di Francia, qualche cosa del loro mondo crollava, ma non potevano d'un subito calcolare la portata degli avvenimenti che si erano svolti sotto i loro attoniti occhi. Poche e timide voci di protesta si levarono a condannare il sacrilego attentato. Ma una voce, quella del Poeta divino, si levò dal suo esilio a bollare l'infamia dei nemici del Papa: Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso, / E nel Vicario suo Cristo esser catto, / Veggiolo un'altra volta esser deriso, / Veggio rinnovellar l'aceto e il fele, / E tra vivi ladroni essere anciso (16). Per un momento il grande Alighieri, deposte le ire contro Bonifazio, s'inchinava riverente alla sua sventura.
NOTE
(1)
Le Probléme de l'Église et de l'État au temps de Philippe le Bel, Paris, Champion 1926.(2)
E' la teoria d'Innocenzo III. Cfr. Registrum super negotia R. Imperii, 18 (Migne, P. L., CCXVI, 1012-1013).(3)
FRANC PAPINI, Cronicon, in MURATORI, Rer. ital. script. t. XI, col. 745.(4)
L'opera contenuta nel manoscritto 6222 C. della biblioteca nazionale di Parigi è anonima ma M. de Vailly l'attribuì con prove inconfutabili a Pierre du Bois e assegnò il 1300 come data di composizione del Trattato. (VAILLY, Mèmoire de l'Instit. de France, Acad, des Inscript. 1589, XVIII pagg. 435-492).(5)
E. RENAN, Études sur la politique religieuse du regne de Philippe le Bel, Paris 1899, pag. 291.(6)
Ibid., pagg. 292-294.(7)
Ibid., pag. 295.(8)
lbid., pag. 303.(9)
Ibid., pag. 304.(10)
GIOVANNI DA PARIGI, De Patestate regia et papali, in GOLDAST, Monarchia, II, pag. 120 e sgg. Cfr. FRANCO SCADUTO, Stato e Chiesa negli scritti politici dalla fine della lotta per le investiture sino alla morte di Ludovico il Bavaro. Firenze, Le Monnier 1882, pag. 85.(11)
SCADUTO, op. cit., pag. 86.(12)
Cfr. SEBASTIANO CAMPI, Memorie della Vita di messer Cino da Pistoia. Pisa, I, pag. 138.(13)
E' in GOLDAST, Politica Imperialis. Francofurti 1614, pag. 754 e sgg.(14)
GOLDAST, Monarchia, II, pag. 88 sgg.(15)
SCADUTO, Op. cit., pag. 94.(16)
Purg. XX, 86-90.
CAP. VIII
Il trattato "De Potestate Ecclesiastica" di Egidio Romano
[Pag. 148]
Il grande filosofo agostiniano che nel "De Regimine Principum" aveva tracciato, su base aristotelico-tomista, il quadro del moderno stato dinastico, dopo l'ascensione al trono pontificio di Bonifacio VIII al quale era legato dai vincoli della riconoscenza e dell'amicizia, divenne l'assertore più tenace dell'idea teocratica. Due volte, in circostanze storiche, egli usò la valentia della sua dialettica in difesa del pontefice. Subito dopo l'abdicazione di Celestino V, mentre ardeva la polemica degli Spirituali contro la legittimità dell'elezione di papa Gaetani, egli prese la penna in difesa del suo signore ed amico, e nel "De Renuntiatione Papae" (1) dimostrò che il vescovo di Roma può validamente rinunciare al suo ufficio, sebbene ne sia direttamente investito da [Pag. 149] Dio, e nel fatto specifico, ricordò che Bonifacio VIII, ancora cardinale, aveva tentato di far desistere il predecessore dalle sue risoluzioni, dicendogli che bastava al sacro collegio "quod nomen suae sanctitatis invocaretur super eos". Una seconda volta, in occasione del sinodo romano del 1302, indetto per condannare la politica di Filippo il Bello, egli fu l'avvocato del Gaetani, pubblicando il "De potestate ecclesiastica". Quest'opera famosa, conservata in numerosi manoscritti (2), segnalata agli studiosi dal Tritemio, dal Bellarmino, dall'Ughelli, menzionata onorevolmente dal Tiraboschi (3), fu riesumata nel 1858 dal Jourdain (4) che ne pubblicò alcuni estratti mettendo fine alla leggenda di un Egidio Romano ligio alle ambizioni dei sovrani francesi. Finalmente pochi anni or sono, Giuseppe Boffito, in collaborazione di G. U. Oxilia, servendosi [Pag. 150] di un antico codice della Nazionale di Firenze (Fondo dei conventi soppressi) dava alle stampe il prezioso trattato che fu subito ritenuto come uno dei documenti più importanti della letteratura curialista medioevale (5). Enrico Finke gli assegnò come data di composizione il 1302, basandosi sul fatto che la contesa del 1300 tra la Francia e l'Inghilterra è conosciuta come avvenuta dall'autore (6), e che il trattato servì a Bonifazio VIII per la redazione della bolla "Unam Sanctam". L' ipotesi che Egidio abbia utilizzato nel suo lavoro lo scritto del pontefice, è inaccettabile, secondo il chiarissimo scrittore, perchè il trattato, come apologia della bolla, avrebbe fallito al suo scopo. E poi come avrebbe potuto Giovanni Monaco giovarsi del "De potestate ecclesiastica" nella sua Glossa, uscita subito dopo la pubblicazione del famoso documento papale? Ora a nessuno può sfuggire la stretta dipendenza dal filosofo agostiniano, di questo non oscuro glossatore (7). Lo Scholz [Pag. 151] propende per il 1301 (8), ma non giustifica la sua asserzione. Possiamo con tutta sicurezza fissare per la data di composizione i due limiti, 1300 (lotta anglo-francese) e autunno 1302 (redazione della bolla Unam sanctam). L'opera è preceduta da una breve dedica a Bonifazio VIII. Con termini di speciale riverenza, frater Egidius, arcivescovo di Bourges e primate di Aquitania, umilia se stesso e il trattato ai piedi del beatissimo Padre. Premeesso quindi un breve prologo per dimostrare che l'ignoranza dei limiti dell'autorità pontificia, può essere esiziale alla salute dell'anima, l'autore divide lo scritto in tre parti, nella prima delle quali tratta dei rapporti fra i due poteri, spirituale e temporale, nella seconda della proprietà ecclesiastica, e nella terza confuta le eventuali obiezioni alla dottrina precedentemente esposta e definisce la natura della potestà ecclesiastica. Il Papa è quella spirituale persona di cui S. Paolo afferma che "judicat omnia et ipse a nemine judicatur" (9). Egli possiede la "perfectio status" che consiste in jurisdictione et in plenitudine potentiae, mentre ai semplici laici può competere soltanto la perfezione personale, che è il premio della purezza di coscienza. [Pag. 152] A lui è soggetto l'uomo ratione animae. E poiché nei singoli uomini la materia è dominata dallo Spirito e l'anima è la forma del corpo, il suo governo si estende all'intiero individuo umano e conseguentemente a tutte le potenze del mondo che non sono ordinate al bene ultraterreno, ma soltanto a quello sociale materialmente inteso (10). La superiorità della potestà pontificia è chiaramente dimostrata dal diritto che spetta al Papa di riscuotere le decime e di consacrare l'imperatore, dal fatto che in certi casi l'autorità sacerdotale istituì quella secolare, dall'ordine dell'universo nel quale le sostanze razionali governano le irrazionali, le spirituali reggono le temporali. Dai sacrifizi offerti dal primo uomo alla divinità ripete il sacerdozio la sua origine, mentre il regno ebbe posteriormente l'inizio, ai tempi di Neroth. Essendo quindi la suprema autorità religiosa anteriore, appartiene ad essa l'istituzione delle potestà secolari e la correzione e il giudizio sul principe tirannico o sprezzante dei diritti e dei privilegi della Chiesa (11). Dal concetto di un duplice alimento, celeste e terreno, indispensabile alla vita dell'uomo, composto di anima e di corpo, si passa facilmente all'altro della necessità del potere laico e di [Pag. 153] quello ecclesiastico per l'ordinato governo della società, formata a sua volta di uomini (12). Ambedue le autorità, la mondana e l'ultramondana, affidate a Mosè e ai sommi sacerdoti nell'antico Testamento, sono oggi concentrate nel Romano Pontefice, che riserva a sè la spirituale più nobile e consona al proprio ufficio ad usum, e concede la temporale ai sovrani ad nutum, affinchè la usino ai cenni e col permesso del sacerdote (13). Nella seconda parte Egidio rivendica contro gli Spirituali la liceità della proprietà ecclesiastica, nonostante l'apparente contraddizione di alcuni passi della Sacra Scrittura (14). Anche ai religiosi che emisero il voto di povertà è concesso il diritto di possedere beni temporali, purchè siano investiti della dignità episcopale. Alle parole di S. Paolo: Tamquam nihil habentes et omnia possidentes (15), egli nota che la glossa aggiunge: "non solum spiritualia, sed et temporalia, quia timentibus Deum nihil deest". E la gloria degli apostoli fu di posseder tutto quantum ad dominium, e nulla quantum ad sollicitudinem. Il perfetto distacco dalle cose della terra è certamente un opus supererogationis assai meritorio, ma il possesso dei beni materiali appartenenti [Pag. 154] alla Chiesa, non è, per le persone consacrate a Dio senza il legame di un voto speciale di povertà, un ostacolo alla perfezione (16). Nel vecchio e nel nuovo Testamento vi sono passi che sembrano proibire ai fedeli, e specialmente agli ecclesiastici qualsiasi proprietà, ma non ne mancano altri suscettibili di più benevola interpretazione. Se nel capo XVIII, 2° dei Numeri il Signore dice ad Aronne: "Nihil posidebitis, nec habebitis partem inter eos. Ego pars et haereditas in medio filiorum Israel", è pur vero che nel capo XXV dello stesso libro, gli ebrei ricevono l'ordine dallo stesso Signore di assegnare ai leviti città da abitare e terreni da coltivare. E in Luca (17) è scritto: "Nolite portare sacculum neque peram", ma anche: "Sed nunc qui habet sacculum tollat similiter et peram". Volle dunque il Salvatore che i discepoli non fossero del tutto sforniti di cibo e di denaro. Tre fasi nella storia della Chiesa ha attraversato l'jus. di possesso. In un primo tempo la comunità cristiana, direttamente assistita dalla Provvidenza, era priva di beni e ogni proprietà veniva goduta in comune. Poi il clero ottenne il diritto di acquistare e disporre dei beni materiali, ma cessò la speciale assistenza divina. Infine nella terza età, quella attuale, gli ecclesiastici [Pag. 155] godono dell'jus possidendi e della provvidenza di Dio (18). Si può anzi legittimamente dire che tutto ciò che è temporale cade sotto il dominio della Chiesa. Questa tesi arditissima è provata con i quattro argomenti fondamentali della pubblicistica medioevale: 1° Le sostanze temporali furono create al servizio delle spirituali; 2° Come i corpi dominano le altre cose materiali e le anime signoreggiano i corpi, così il Papa regna sui corpi, sulle anime e sulle cose; 3° Nella natura imperfectiora ordinata sunt ad perfectiora, gli esseri inanimati a quelli animati, gli animali inferiori a quelli superiori, la potestà regia a quella sacerdotale; 4° Il tributo delle decime cui sono obbligati i fedeli, è il tacito riconoscimento del sovrano dominio di cui Dio ha investito la Chiesa su tutto ciò che è terreno (19). L'affermazione che le due potestà, la laica e la religiosa, derivano immediatamente da Dio, non regge, osserva Egidio, ad una critica obiettiva. E prova la sua asserzione risalendo nella storia sino all'infanzia dell'umanità. Nel periodo della legge naturale i popoli furono governati da principi, come Neroth, primo sovrano di Babilonia, malvagi ed usurpatori. Quando Dio volle largire agli uomini una legge positiva, elesse Mosè a giudice del popolo eletto, e soltanto [Pag. 156] in seguito permise l'istituzione del regno, ma con l'espressa condizione che i Re di Israello fossero consacrati dai sommi sacerdoti. Onde Ugo di S. Vittore dice che il potere spirituale deve costituire il temporale (20). E quand'anche fosse vero che le due potenze ripetessero da Dio la loro origine immediata, non ne seguirebbe l'autonomia del principato dal sacerdozio, come non seguirebbe nel composto umano l'indipendenza del corpo dall'anima, anche se il primo uscisse direttamente dalle mani del Creatore. Perchè spirito e materia formano nell'uomo un tutto inscindibile, in cui il comando spetta all'elemento incomparabilmente più nobile, e potere regio e potere sacerdotale, nel vasto organismo della società, non possono disunirsi, come non si dividono i corpi dalle anime, ma devono risiedere in una sola persona, e precisamente in quella persona, il Romano Pontefice, che avendo il governo delle anime deve regnare per conseguenza anche sui corpi (21). La potestà ecclesiastica e secolare è parte integrante, secondo Egidio, insieme alle altre tre potenze, le virtutes naturales, le artes, le scientiae, dell'ordine naturale del mondo (22). Ma le virtù [Pag. 157] naturali sono soggette alle celesti che ad esse presiedono, le arti elaboranti le materia sono dipendenti da quelle che la materia ordinano a un dato fine, le scienze inferiori sono subordinate alle superiori, la metafisica alla teologia, così il potere mondano è gerarchicamente sottomesso all'ultramondano come virtus particularis sub universali, come ars praeparans materiam sub ea cui praeparat, come scientia attingens optimum sub ea quae magis attingit (23). Dal campo politico l'autore si spinge più oltre e passa al concetto di proprietà. Non soltanto nessuna potestà è legittima se non è riconosciuta dalla Chiesa, ma l'uomo non può possedere con giustizia nè podere, nè vigna, nè casa, nè qualsiasi altra cosa materiale, ov'egli non l'abbia sub ecclesia et per ecclesiam (24). Poichè essendosi l'uomo allontanato col peccato dal fine della creazione, divenuto indegno di ogni possesso temporale, non può ricevere dal padre che lo genera carnaliter il diritto ai beni della terra, ma lo avrà dalla Chiesa che lo reintegra, per mezzo dei sacramenti nell'ordine della grazia. [Pag. 158] E così nello Stato cristiano, cioè nell'unica società politica dove la vera giustizia, secondo l'espressione di S. Agostino (25), può essere osservata, la Chiesa è la padrona, almeno indirettamente, delle cose materiali, e ne distribuisce il dominio agli uomini concepiti nel peccato, quali filii irae, dopo averli rigenerati alla vita soprannaturale (26) mediante il battesimo e il sacramento della penitenza. Il primo ci toglie la macchia originaria che contraemmo da Adamo, il secondo cancella il peccatum actuale che, non meno dell'originale, ci rende volta per volta indegni di possedere (27). Anche la dibattuta questione dell'origine delle potestà terrene, è affrontata da Egidio. Egli ammette che gli scrittori della Bibbia e i Padri della Chiesa sembrino discordi. L'Apostolo dice: Non est potestas nisi a Deo. Ma a questa sentenza paolina, il nostro autore oppone le parole di Osea VIII, 4, ed accenna alle divergenze tra Gregorio ed Agostino, il primo dei quali sembra derivare alcune potestà da Dio. [Pag. 159] Per conciliare le diverse opinioni apparentemente contrarie, il nostro filosofo distingue la "potestas" in sè che è sempre buona, dall'usus potestatis che può essere cattivo rendendo l'autorità non iussa, cioè non ordinata, ma soltanto permissa, cioè tollerata da Dio. Spesso il Signore permette che regnino sovrani malvagi per punire i peccati del suo popolo e ricavare dal castigo frutti di penitenza. Ma questi principi che abusano della loro potenza non regnant ex Deo, bensì usurpano, come dice S. Gregorio, cupiditate dominandi, il governo delle nazioni. I soli monarchi che si professano figli devoti della Chiesa, che si dichiarano debitori ad essa del potere di cui sono investiti, possono chiamarsi veri signori dei loro popoli (28). Però anche così riconosciuti e consacrati dal Sommo Pontefice, questi grandi della terra hanno soltanto il dominio particolare dei beni temporali, appartenendo alla potestà religiosa quello universale, che, fondandosi su una distinzione di Ugo di S. Vittore, Egidio divide in utile o fructiferum, potestativum o jurisdictionale: [Pag. 160] a quest'ultimo spetta "justitiam exercere" (29). Agli infedeli poi nessun diritto compete di possesso e di dominio, perchè non adorando il vero Dio, non avendo ricevuto la grazia vivificante dei sacramenti, nullam potestatem possunt habere vere et cum justitia (30). Quest'alta sovranità sulle cose materiali proviene alla Chiesa, secondo il nostro autore, dal fatto che Dio la volle costituita come società visibile che fa capo al successore di Pietro ed ha per organi della vita soprannaturale la gerarchia e i sacramenti che essa amministra Il suo divin Fondatore le concesse la potestas ligandi atque solvendi che, si estende su tutti i fedeli, e il diritto di potere annullare nei propri membri, per mezzo della scomunica, ogni capacità giuridica al matrimonio, all'eredità, al possesso dei beni terreni (31). Ad essa spettano ambedue le spade, la spirituale e la temporale, delle quali la prima la impugna il suo capo visibile, il vescovo di Roma, l'altra è affidata a persone che a suo comando e per i suoi fini la usino (32). Nella terza parte del trattato, Egidio intende ribattere le possibili obiezioni che a queste dottrine potrebbero esser mosse. [Pag. 161] Dopo essersi scusato col lettore di avere adoperato termini che forse altri dotti non potrebbero accettare, preoccupandosi di riuscire piuttosto chiaro che elegante (33) egli passa all'esposizione delle difficoltà. Gli stessi giuristi che derivano da Dio l'origine immediata del potere laico, negano conseguentemente la liceità dell'appello dal tribunale secolare a quello ecclesiastico. Ma è innegabile, dice il nostro scrittore, che se il fine dell'uomo è la salute eterna, il Sommo Pontefice, la cui missione è di facilitare ai fedeli questo compito, possa e debba intervenire ogni qual volta il raggiungimento di questo scopo è minacciato, avocando a sè quelle cause civili che egli giudica di essere in diritto, dato il suo ufficio, di risolvere. A questo principio sembra contraddire Alessandro III negli Extrav. (34) asserendo che tale appello non è de rigore iuris. Ora, osserva Egidio, bisogna tener presente la distinzione dell'jus in rigidum, in equum e in mite. [Pag. 162] Quando affermiamo che i beni temporali, in quanto tali, cadono direttamente sotto la giurisdizione laica, intendiamo dire che ciò avviene de rigore juris, mentre è secondo un diritto più mite, sebbene anch'esso inalienabile, che essi siano oggetto della sanzione pontificia quando tornano a pregiudizio dell'anima e ostacolano il fine etico ultraterreno. Ma come Dio, fonte e causa di ogni cosa, lascia che l'ordine della natura segua il suo corso, così il Romano Pontefice non interviene d'ordinario nel foro secolare per non intralciare l'opera dei giudici e per non distogliere la sua mente dal governo delle anime che è il primo e più alto compito del suo ufficio (35). A questo prudente criterio di regolarizzare l'intromissione della S. Sede negli affari civili, alludeva forse Innocenzo III quando scriveva: "cunctis causis inspectis, temporalem jurisdictionem causaliter exercemus" (36). Del resto, aggiunge Egidio ripetendo un'osservazione che aveva fatto a proposito di Alessandro III, la parola di un Papa non obbliga, nel campo giuridico, il suo successore (37). Ma vi sono casi che richiedono l'intervento dell'autorità ecclesiastica nei tribunali secolari per avocare a sè quelle liti giudiziarie nelle quali temporale e spirituale vicendevolmente si [Pag. 163] annettono. Tali sono le cause intorno alle decime, ai matrimoni, alla legittimazione, alla dote, al testamento, ai crimini denunziati, ai patti confermati con giuramento, alla guerra, alle contese tra sovrani, alle donazioni fatte alla chiesa o alle opere pie. Inoltre il Sommo Pontefice è tenuto ad intromettersi nella legislazione civile quando il potere laico è assente o negligente, e quando la legge non sufficentemente chiarita ha bisogno d'interpretazione (38). Nel Papa risiede la pienezza della potestà. Egli potrebbe regnare sulle anime e sui corpi senza servirsi di intermediari, perchè, spiega scolasticamente il nostro autore, plenitudo potestatis est in aliquo agente, quando illud agens potest sine causa secunda quidquid potest cum causa secunda. Ma come Dio regge l'universo per mezzo di leggi o di agenti, così il Capo dei fedeli si vale negli atti del suo governo di ministri oculati e attivi che agiscono in virtù del potere [Pag. 164] di cui sono da lui investiti (39). La potenza del Vescovo Romano è maggiore di quella delle sfere celesti che non possono operare senza il concorso delle cause seconde, ma parecchie analogie si potrebbero riscontrare fra l'essenza della potestà del Pontefice e la natura dei cieli che circondano la terra e vi esercitano il loro influsso (40). Nonostante la plenitudo potestatis, l'autorità spirituale riceve in dono beni materiali dai fedeli. Si ha in tal caso la cessione alla Chiesa del proprio particolare jus che ad ogni uomo compete nelle cose temporali. In questo senso si deve spiegare l'espressione di Ugo di S. Vittore che talora è concesso al clero dalla pia devozione dei cristiani il possesso in temporalibus (41). Al Papa, nella chiusa del trattato, sono rivolte le parole della sapienza: (42) Omnia in mensura, numero et pondere disposuisti. Tutto può disporre il Sommo Pontefice e ordinare nella società dei credenti. Anche la facoltà di assolvere dai peccati è posta illimitatamente nelle sue mani. "Abbi timore del vescovo di Roma, esclama Egidio, ed osservane i comandi, essendo questo il fine per cui fosti creato". E riepiloga in un periodo tutta la sua dottrina: Summus Pontifex est timendus et sua [Pag. 165] mandata sunt observanda, quia potestas eius est spiritualis, coelestis et divina, et est sine pondere, numero et mensura (43).Critica del De Potestate Ecclesiastica
[Pag. 165]
Noi esaminammo il De Regimine Principum di Egidio che ci rivelò uno scrittore di larghe vedute, consapevole dei problemi politici del suo tempo. Nel 1280, anno in cui il trattato fu probabilmente redatto, il filosofo agostiniano definiva l'uomo un animale sociale e politico, e la civitas un'istituzione necessaria che sorge naturalmente quando alcune famiglie si associano dapprima in villaggi, e poi in aggregazioni maggiori. Il fine dell'organizzazione statale è la felicità dei cittadini: procurar loro non il semplice vivere, ma l'agiatamente e virtuosamente vivere. L' influsso dell'antico concetto platonico-aristotelico di una finalità della civitas rivolta non soltanto ai beni del corpo, ma anche e sopratutto a quelli ben più rilevanti dell'anima, è manifesto, in tutta la fortunata opera che Egidio Romano dedicò a Filippo il Bello, non ancora asceso al trono di Francia. In seguito il grande filosofo non si occupò più per quasi un ventennio di questioni politiche. Le polemiche vivissime, dopo [Pag. 166] l'elezione di Bonifazio VIII, tra i Colonna e gli Spirituali che negavano la validità dell'abdicazione di Celestino V e conseguentemente dell'assunzione al trono pontificio del suo successore, e i partigiani di papa Gaetani che riconoscevano al Vescovo di Roma il diritto di rinunziare al proprio altissimo ufficio, dettero occasione al nostro autore di scrivere il "De Renuntiatione Papae" per porre termine all'incresciosa controversia. Strane voci di subdole arti tentate dal novello pontefice per indurre l'ingenuo suo antecessore al gran rifiuto correvano per l'Europa. In realtà la storia ha fatto giustizia di queste malevoli insinuazioni, e ha ridotto l'opera del cardinale Gaetani al solo fatto di aver assicurato l'antico romito asceso, in seguito ad avvenimenti straordinari, alla cattedra di Pietro, della legittimità del passo che stava per compiere. Il 10 marzo 1297, i cardinali Jacopo e Pietro Colonna, adunatisi coi loro seguaci a Lunghezza, dichiaravano non valida l'abdicazione di Celestino V e l'elezione di Bonifacio e si appellavano al futuro concilio. Poco dopo nei cenacoli dei letterati italiani e nei circoli degli Spiritualisti o Fraticelli, così influenti nella società di quel tempo, risuonava terribile l'invettiva di Jacopone da Todi: O papa Bonifazio, molt'hai iocato al mondo, penso che giocondo non te porrai partire. Ma contro questi acri polemisti che appoggiandosi sul principio dell'origine divina [Pag. 167] dell'autorità di cui è investito il Successore di Pietro, sostenevano l'impossibilità, dopo averla ottenuta, di rinunziarvi senza un espresso consenso da parte di Dio, Egidio sorse in difesa del suo amico e protettore esponendo alcune teorie sulla natura dei poteri, veramente interessanti per chi voglia seguire lo sviluppo del suo pensiero politico. Il nostro scrittore parte da una distinzione concettualista fra potestas e jurisdictio. Ogni autorità spirituale e temporale in quanto è ordo ha un'origine ultraterrena, in quanto è jurisdictio deriva dalle determinazioni umane, essendo indispensalile la cooperazione degli uomini per scegliere la persona che della potestà dovrà essere investita. E così tutte le potestates formalmente in Dio, in concreto si fondano nel consenso degli elettori e nell'assenso dell'eletto (44). Dei due elementi che le compongono, [Pag. 168] l'ordine e la giurisdizione, il primo è la base trascendentale e divina del potere e non può essere alienato, l'altro forma la base materiale ed è trasmissibile (45). Anche il papato è posto sulla linea delle altre autorità: il Romano Pontefice riceve dall'umana determinazione la jurisdictio che è l'esercizio, il contenuto dell'ordo, e può quindi validamente rinunziare ad essa e al suo altissimo ufficio quando lo crede opportuno (46). Queste teorie ebbero in seguito fortuna. Il nostro filosofo aveva detto: Tutto ciò che deriva da Dio, ma si attua con la cooperazione umana, può essere dagli stessi uomini abrogato (47). E su principio fondava la validità dell'abdicazione di Celestino V. Ben presto si passò ad affermare che le persone arrivate ad una carica per consensum hominum, [Pag. 169] potessero, per mezzo dello stesso consenso, esser rimosse dal loro ufficio. E non fu eccettuato, andando assai più lontano di quanto avrebbe voluto Egidio, nemmeno il papa. La distinzione tra ordo e jurisdictio fu il punto d'appoggio a numerosi dottori dei secoli seguenti per proclamare la superiorità del Concilio sul Papa. Nel "De Potestate Ecclesiastica" è invece esposta una dottrina rigidamente teocratica. Nella letteratura medioevale prosastica e poetica dominava incontrastata l'idea feudale. L'amore stesso era presentato come un signore che va in cerca di vassalli da dominare e da comandare. Seguendo questo concetto, Egidio dispone i poteri in un armonico disegno, secondo il quale i superiori governano gl'inferiori, e nell'ordine terreno scorge un riflesso di quello celeste. Dio, il supremo moderatore dell'intiera machina mundi dirige la sua Chiesa per mezzo del Papa, cui commise, come suo vicario, il governo di tutte le nazioni dopo averlo investito della duplice spada, l'una ad usum, l'altra ad natum. Sembra anzi che lo scrittore agostiniano rimpianga quel tempo del vecchio Testamento quando una sola persona poteva maneggiare le due spade, anche quella temporale, senza bisogno d'intermediari (48). Ma era troppo [Pag. 170] profondo conoscitore della storia ecclesiastica per ignorare quanto le occupazioni incessanti impedissero ai Sommi Pontefici il raccoglimento. Forse nel suo orecchio durava ancora l'eco delle parole di Gregorio Magno piangente che il suo cuore fosse trattenuto dalle sollecitudini del governo di Roma nel suo slancio verso Dio (49), o quelle che Innocenzo III scriveva all'abate di Citeaux: "La meditazione mi è impedita, il pensare quasi impossibile, a pena posso io respirare" (50). Perchè Egidio afferma che "perfectius et excellentius est habere materialem gladium ad nutum quam ad usum, (51), e che l'antico sacerdozio rinunziò ben presto alle cure mondane per dedicarsi più diligentemente a quelle dello spirito. Vi è nel nostro scrittore una strana tendenza ad inasprire, anche nel campo giuridico, le idee teocratiche dominanti nella società del suo tempo. Valga come esempio la sua teoria delle decime. Gli antichi canonisti le derivavano dall'istituzione divina appoggiandosi su Malachia (52) e sui Numeri (53). [Pag. 171] S.Tommaso le fonda in parte sul precetto positivo e in parte sul diritto di natura (54). Esse sono una recognitio divini beneficii (55), un riconoscimento delle grazie che Dio spande sulle creature e un mezzo per fornire ai ministri del culto quel necessario sostentamento che già il popolo offriva ai principi e ai cavalieri sotto il titolo di stipendia victus. Ma nella dottrina tomistica le decime non rivestono la qualità di tributo, perchè esse erano pagate con i frutti della terra ottenuti ex munere divino. Invece nel "De Potestate ecclesiastica" questo carattere tributario è ad esse chiaramente attribuito. Egidio le concepisce come un segno della sottomissione dei fedeli al dominio universale della Chiesa, un censo di servitù dei laici ai sacerdoti (56). Egli, il grande filosofo, [Pag. 172] sembra che abbia il compito di portare all'estreme conseguenze tutte le teorie degli scrittori curialisti medioevali. Non gli bastava asserire la supremazia assoluta della potestà spirituale sulla temporale, doveva arrivare, con un trapasso infelice dal concetto di potere a quello di possesso, alla stupefacente conclusione che nessuna proprietà può l'uomo possedere con giustizia, ov'egli non l'abbia sub ecclesia et per ecclesiam. E' innegabile in tutto il trattato l'influsso della scuola agostinista, in cui mancava una netta distinzione fra il dominio della filosofia e quello della teologia, fra le verità razionali e quelle rivelate, in modo che le prime erano assorbite dalle seconde. Da questa confusione dei due ordini di verità proveniva la distruzione delle forze originarie dello Stato. Infatti se il diritto di natura spariva in quello soprannaturale, l'organizzazione politica della società non aveva ragione di esistere senza il riconoscimento della Chiesa. Ogni elemento spirituale mancava al potere terreno, se quello ultramondano negava di conferirglielo. A questo principio si appoggiava Egidio quando sosteneva che la potenza romana non era un impero [Pag. 173] legittimo (57), e i regni degli infedeli non hanno un fondamento legale, ma sono, secondo l'espressione di S. Agostino, magna latrocinia (58). I Romani Pontefici difesero con molta energia e varia fortuna in tutto il Medio Evo l'idea teocratica. Ai principi che essi propugnavano, l'autorità laica opponeva, come fecero Enrico IV, Federico II, Filippo il Bello, la teoria dell'uguaglianza dei due poteri. Papa Gelasio formulò in un modo classico la superiorità della potestà spirituale su quella temporale, appoggiandosi alla concezione dell'unità ideale del regno e del sacerdozio in Cristo (59). Gli altri elementi dottrinali, le potestates ordinis, magisterii, jurisdictionis vennero sviluppandosi sotto i suoi successori sino a raggiungere l'unità totale del sistema in Gregorio VII. Ma i canoni politici e filosofici che hanno retto idealmente la civiltà cristiana nell'età di mezzo sono rampollati dalla teologia di S. Agostino sintetizzata in quel meraviglioso libro della città di Dio [Pag. 174] che fu la carta fondamentale della Chiesa per la sua missione sociale. Nello scritto del grande dottore la Civitas Dei s'identifica con la comunità dei fedeli, di cui è Rettore Cristo, il Messia predetto nell'antico Testamento, discendente da Aronne e da David, dai quali ereditò la dignità di Sacerdote e di Re. A S. Agostino fu attribuita la teoria della natura diabolica e peccaminosa dello Stato in sè, non soltanto del pagano, ma anche del cristiano. Ma è questo un errore che si rivela anche ad uno sguardo superficiale dato alla produzione letteraria del grande Padre dell'occidente cristiano. La lotta fra le due società, dei buoni e dei cattivi, che si è accentuata nel cozzo fra paganesimo e cristianesimo e che si perpetuerà oltre la fine dei tempi, nell'altro mondo, con l'eternità della vita per gli Eletti e della morte per i dannati, non è guerra della Chiesa contro ogni forma di organizzazione politica dei popoli, ma del bene contro il male, della grazia contro il peccato, di Dio contro il diavolo. Le frasi pessimiste di S. Agostino sulla natura e sull'origine del regnum, si devono riferire allo stato non cristiano che è veramente in antitesi colle finalità della Città di Dio. Inoltre il dottore d'Ippona mantiene una posizione neutrale di fronte alle due autorità, spirituale e temporale, perchè dice che tanto i sovrani quanto i sacerdoti ricevono dall'alto la potestà a loro affidata per il vantaggio dei sudditi. E se fu il primo pensatore ad osservare [Pag. 175] che il concetto di dominio del Redentore nella Civitas da lui fondata, importa anche l'idea di sacerdozio e di regno riuniti nella persona di Cristo, egli non affermò che Dio trasmise il duplice potere, almeno in senso terreno e politico, ai Sommi Pontefici suoi vicari (60). Con l'insulto di Anagni (settembre del 1303) crollò per non più rialzarsi la potenza politica dei papi. Un anno avanti, in occasione del concilio romano indetto per giudicare la politica di Filippo il Bello, Bonifacio VIII aveva pubblicato la bolla Unam Sanctam, ed Egidio Romano il "De Potestate ecclesiastica". Alcuni scrittori (61) hanno voluto riconoscere nell'estensore della bolla il nostro filosofo. Ma questa opinione che, data la grande somiglianza di forma e di concetti fra lo scritto egidiano e quello del pontefice, potrebbe sembrarci seducente, è decisamente contraddetta da una notizia contenuta nel Cod. 4229 della Nazionale di Parigi, secondo la quale il Papa avrebbe steso di suo pugno il documento famoso (62). E' però probabile che l'opera del nostro filosofo abbia ispirato la bolla solenne che a monito dei principi terreni poco riguardosi dei diritti sovrani della potestà spirituale, Bonifacio VIII [Pag. 176] emanava nell'imminenza del tragico epilogo della sua lotta contro la corte di Francia. Un breve confronto fra i due scritti, del papa e del monaco agostiniano, ci convincerà della loro grande affinità d'idee e di forma, che non possiamo spiegarci senza supporre che l'uno abbia servito di base all'altro. Entrambi, Bonifazio ed Egidio, prendono le mosse dal passo di S. Luca (XXII, 38): "Ecce gladii duo hic" per affermare che alla Chiesa competono ambedue le spade, la spirituale e la temporale, l'una direttamente, l'altra indirettamente. Già S. Bernardo, parlando della spada materiale, aveva detto, rivolto a papa Eugenio: "Tunc ergo et ipse (gladius) tuo forsitan nutu, etsi non tua manu evaginandus. Uterque ergo ecclesiae, et spiritualis scilicet gladius et materialis: sed is quidem pro Ecclesia, ille vero ab Ecclesia exercendus; ille sacerdotis, is militis manu: sed sine ad nutum Sacerdotis, et iussum Imperatoris" (63). Tanto Bonifazio VIII quanto Egidio ripetono quasi le stesse parole, ma tolgono il forsitan che serviva a S. Bernardo per temperare la frase troppo decisamente esaltante la potenza papale, ed asseriscono senz'altro che la spada temporale appartiene sì al potere civile, ma "ad nutum et patientiam sacerdotis" (64). [Pag. 177] E poiché tutte le autorità terrene, non due, ma una sola gerarchia devono costituire, dominando l'unità nella natura e nell'ordine delle cose, ne segue che l'autorità temporale è soggetta non solo, ma ordinata allo spirituale (65). E a prova di questa asserzione ambedue gli scrittori, il pontefice e il monaco, adducono quattro ragioni:1°. Il diritto di riscuotere le decime che ha la Chiesa;
2°. La consacrazione dell'Imperatore da parte del Papa e la benedizione impartita;
3°. Il fatto che nell'antico Testamento Dio si è servito del sacerdozio per istituire il potere civile;
4°. L'ordine dell'universo che importa il dominio dello spirito sulla materia (66). [Pag. 178] Infine entrambi concludono che se l'autorità spirituale può pronunziar giudizio su quella temporale, essa, a sua volta, non può esser trascinata davanti al tribunale umano, ma soltanto Dio può giudicarla (67).
NOTE
(1)
Stampato nella raccolta di Antonio Blado, in una edizione curata da parecchi agostiniani, Roma, 1554, e nel t. II della "Bibliotheca Maxima Pontificia" di Giovanni Tommaso Roccaberti, Roma, 1698, pagine 1-64.(2)
Cod. n. 4229 della Nazionale di Parigi: mss. n. 4107, perg. in fol. 194 x 278, di c. 83 a due col. sec. XIV, 5612 cart. in fol. sec. XIV fine, 222 x 312 di c. 124 con postille del sec. XVI, della Vaticana: num. 130, 181, 367 dell'Angelica: cod. Magliabechiano, I, VII, 12, pergam. in 4°, 184 x 225, di c. 195, del secolo XIII o del principio del XIV, della Nazionale di Firenze. Cfr. G. BOFFITO, Saggio di Bibliografia Egidiana, Firenze, Olschki 1911, pag. 59.(3)
Storia della Letteratura Italiana, Milano 1823, t. IV, pag. 64.(4)
Ch. JOURDAIN, Un ouvrage inédit de Gilles de Rome, in Journal général de l'Instruction Publique (24 e 27 febbr. 1858).(5)
GIUSEPPE UGO OXILIA, GIUSEPPE BOFFITO, Un trattato inedito di Egidio Colonna. Firenze, Successori B. Seeber 1908.(6)
De Potestate eccles., III, 6, pag. 143 (ediz. Boffito): "Quando ergo Summus Pontifex volebat se intromittere de litigio quod erat inter regem Franciae et regem Angliae, occasione cujusdam feudi, non agebat hoc ratione ipsius feudi secundum se, sed propter aliam triplicem causam ecc...".(7)
Aus den Tagen Bonifaz VIII. Münster, Aschendorff 1902, pag. 160.(8)
RICHARD SCHOLZ, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII in Kirchenrechtliche Abhandlungen her von Ulrich Stutz. Stuttgart, Enke 1903, pag. 568.(9)
Ad Cor., V, 15.(10)
De Potestate eccl., I, cc. 1-2.(11)
Ibid., cc. 3-4-5.(12)
Ibid., c. 6.(13)
Ibid., cc. 7-8.(14)
Luca X, 4: Numeri XVIII, 20-21.(15)
Ad Cor., epist. 2.a, VI, 10.(16)
II, c. 1.(17)
X, 4.(18)
De Potest. eccl., II, cc. 2, 3.(19)
Ibid. c. 4.(20)
De Sacramentis, lib. II, ps. 2.a, c. IV.(21)
De Potest. eccl., II, 5.(22)
Ibid., c. 6, pag. 51: Distincta ergo sunt quatuor genera potestatum, ut unum genus potestatis sint virtutes naturales, aliud sint artes, tercium sint principatus et gubernationes hominum.(23)
Ibid.(24)
Ibid., c. 7, pag. 59-60: His ergo declaratis, volumus descendere ad propositum et ostendere quod nullum sit dominium cum iusticia nec rerum temporalium nec personarum laicarum nec quorumcumque quod non sit sub Ecclesia et per Ecclesiam, ut agrum vel vineam vel quodcumque aliud quod habet hic homo vel ille non potest habere cum iusticia nisi habeat illud sub Ecclesia et per Ecclesiam.(25)
De Civit. Dei, II, c. 22.(26)
De Potestate eccl., c. 7.(27)
Ibid., c. 8, è la teoria già enunciata da Innocenzo VI nella risposta a Federico II riportata dal Winkelmann negli Acta imperii inedita, Innsbruck 1880-1885, n° 1035, t. II, p. 696-701: Romanum Pontificem posse saltem casualiter suum exercere pontificale judicium in quemlibet christianum, cuiuscumque conditionis existit, maxime ratione peccati.(28)
Ibid., c. 9, pagg. 68-69: "Sed si Deo subiectus non es, indignus es illa potentia, et quia, ut dicebamus, generatus a patre carnaliter, nasceris filius irae, et non es Deo subiectus, peccans etiam mortaliter, te avertis a Deo et non es subiectus sibi, indignus es potestate illa. Et quia nil dignus est quam privari indignum, debent parentes pro filiis ad devotionem surgere et ad Ecclesiam recurrere ut spiritualiter regenerentur, per quam regenerati, fient digni haereditate paterna et omni potestate et dominio".(29)
Ibid., c. 10.(30)
Ibid., c. 11.(31)
Ibid., c. 12.(32)
Ibid., cc. 13-14-15.(33)
Ibid., III, 1, pag. 114: Ait enim Apostolus, secunda ad Corinthios. XI: "Et si imperitus sermone, non tamen scientia"... Quae verba non ad nostram commendationem, ut nos peritos in scientia asseramus, sed ad nostram excusationem, ut si in hoc opere non per eadem verba locuti fuimus per quae profundiores in hac materia loquerentur, excusatos esse volumus, quia, secundum Augustinum, cum de re constat, nulla debet esse quaestio de sermone, et Hilarius vult quod non sermoni res sed rei sermo debet esse subiectus.(34)
c. 7, X, 12, 28.(35)
De Potest. eccl., III, cc. 1, 2, 3, 4.(36)
Extrav. cap. Per Venerabilem,13, X, 4, 17.(37)
De Potest. Eccles., III, c. 4.(38)
Ibid., cc. 5, 6, 7, 8. L'Ostiense raccolse tutte le cause che si traevano al foro ecclesiastico nei seguenti versi: Haereticus, simon, foenus, periurus, adulter, / Pax, privilegium, violentus, sacrilegusque / Si vacat imperium, si negligit, ambigit, aut sit / Suspectus, judex, si subdita terra, vel usus / Rusticus, et servus, peregrinus, feuda, viator / Si quis poenitens, miser, omnis causaque mixta. / Si denunciat Ecclesiae quis, judicat ipsa. (Cfr. CANTÙ, Storia degli Italiani, T. II, Palermo 1858, pag. 370)(39)
De Potest. eccl., III, c. 9.(40)
Ibid., c. 10.(41)
Ibid., c. 11.(44)
De Renuntiatione Papae, e. XXIV, pag. 58 (ediz. Roccaberti nella Bibliotheca Maxima Pontificia, t. II): Si videre volumus quid est formale in ipso Papatu, considerare debemus in quibus consistit ipse papatus; nam cum omnis auctoritas et ecclesiastica potestas, vel dicit ea quae sunt ordinis, vel ea quae sunt jurisdictionis, oportet quod ratio papalis potestatis in aliquo illorum existat. Materiale autem in ipso papatu sunt personae, in quibus habet esse papatus, vel quae assumuntur ad papatum, nam potestates, virtutes, et similiter omnes perfectiones non habent materiam ex qua fiunt, sed in qua recipiuntur: cum ergo papatus sit quaedam potestas, et quaedam auctoritas et quaedam perfectio, non habet materiam ex qua, sed in qua: ipsae ergo personae, quae assumuntur ad papatum, et in quibus recipitur papatus, dicuntur esse quid materiale respectu papatus. Causa autem efficiens ipsius papatus est consensus eligentium, et consensus electi: et si dicatur quod est causa efficiens etiam confirmatio ipsius Dei dicemus quod Deus sic administrat res, ut eas proprios cursus agere sinat: ex quo ergo hoc requirit cursus rerum, quod si eligentes eligunt, et intellectus assentit quod ille sit Papa, debemus supponere quod hoc fiat ex divina voluntate.(45)
Ibid., c. XVI, pag. 41: Quare quae sunt jurisdictionis possunt tolli, non autem quae sunt ordinis.(46)
Ibid., c. VI pag. 11: Igitur si a solo Deo est papatus, est tamen in hac persona vel in illa per cooperationem humanam. Et quia ad talem potestatem habendam intervenit opus humanum, ideo opere humano desinere potest, quia cooperatione humana esse habuit.(47)
Ibid., c. V. pag. 8: Illud quod sic est a Deo, quod ad illud possunt cooperari creaturae, creaturarum opere tolli potest.(48)
De Potest. eccl., I, c. VII, pag. 24: Videtur ergo ex hoc quod gladius materialis et terrena potestas non reservaretur in ecclesiastica potestate, et exinde posset ulterius argui quod sacerdotes in lege graciae essent imperfectiores sacerdotalibus in lege naturae, quia illi erant reges et sacerdotes habentes utrumque gladium et utramque potentiam.(49)
Gregorii Magni opp. omn. Ediz. dei frati Maurini, Parigi 1705, Epist. I, 5, pag. 490; I, 25, pag. 514.(50)
FELIX ROCQUAIN, Le papauté au moyen âge. Paris, Plon 1886, pag. 178.(51)
De Potest. eccl., I, c. VIII, p. 28.(52)
III, 8-10.(53)
XVIII, 27, 28.(54)
Summa theol., 2, 2, q. 87, art. I: Unde praeceptum de solutione decimarum partim quidem erat morale, inditum naturali ratione: partim autem erat judiciale, ex divina institutione robur habens: quod enim eis, qui divino cultui ministrabant ad salutem populi totius, populus necessaria victus ministraret, ratio naturalis dictat: sicut et his, qui communi utilitati invigilant, scilicet: principibus, et militibus et aliis hujusmodi stipendia victus debentur a populo.(55)
Ibid., 2, 2, q. 86, art. 4: Offerebantur autem primitiae ex speciali causa, scilicet in recognitionem divini beneficii: quasi aliquis profiteatur se a Deo fructus terrae percipere, et ideo se teneri ad aliquid de hujusmodi Deo exhibendum.(56)
De Potest. eccl., I, c. 4, pag. 14: Dantur autem hujusmodi decimae in recognitionem propriae servitutis, ut quilibet recognoscat se servum Dei, sicut inferiores sunt cubicularii suo superiori ut recognoscant se et habere quod habent a superioribus suis, sic et nos quae tenemus et habemus a Deo recipimus... Terrena itaque et temporalis potestas, ut terrena est, idest ut fructus terrae recipit et ut temporalis est, idest ut bona temporalia habet, est tributaria et censuaria ecclesiasticae potestati, quam vice Dei recognoscens, in recognitione propriae servitutis debet eis decimas exhibere.(57)
Ibid., c. 7, pag. 60.(58)
Ibid., III, c. 2, pag. 125.(59)
Cfr. ERNST BERNHEIM, Mittelalterliche Zeitanschauungen in ihrem Einfluss auf Politik und Geschichtschreibung. Tübingen, Verlag von j. C. B. Mohr (Paul Siebeck) 1918, Teil I, pagg. 150-152.(60)
ERNST BERNHEIM, Op. cit., pagg. 118-119.(61)
JORDAIN, Excursions historiques et philosophiques à travers 1e M. Age. Paris, Firmin, Didot 1888, pag. 192; KRAUS, Dante, sein Leben und sein Werk etc., Berlin, Grote 1897, pag. 680.(62)
FINKE, Op. cit., pag. 147, n. 2.(63)
SCADUTO, Op. cit., pag. 19.(64)
Bolla Unam Sanctam, Raynaldi, Annales Eccl., T. XIV, an. 1302, n. 13: De Potest eccl., II, c. 15.(65)
Bolla Unam Sanctam: Opertet autem esse sub gladio, et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati. Nam cum dicat Apostolus: non est potestas nisi a Deo, quae autem a Deo ordinata sunt, non autem ordinata essent nisi gladius esset sub gladio, et tanquam inferior reduceretur per alium in suprema. Nam, secundum beatum Dionysium, lex divinitatis est infima per media in suprema reduci. Non ergo secundum ordinem universi omnia aeque ac immediate, sed infima per media, inferiora per superiora ad ordinem reducentur. Gli stessi concetti e quasi le stesse parole si leggono nel De Potestate Ecclesiastica, I, 3.(66)
Bolla Unam Sanctam: Spiritualem autem et dignitate et nobilitate terrenam quamlibet praecellere potestatem oportet tanto clarius nos fateri, quanto spiritualia temporalia antecellunt: quod etiam ex decimarum datione, et benedictione et sanctificatione, ex ipsius potestatis acceptione, ex ipsarum rerum gubernatione claris oculis intuemur. Cfr. De Potest. eccl., I, 4.(67)
Bolla Unam Sanctam: Ergo si deviat terrena potestas, iudicabitur a potesate spirituali: sed si deviat spiritualis, minor a suo superiori, si vero suprema a solo Deo, non ab homine poterit iudicari. Cfr. De Potest. eccl., I, 4.CAP. IX
IL "DE REGIMINE CHRISTIANO" DI GIACOMO DA VITERBO
[Pag. 179]
Nella dedica al pontefice premessa all'opera, l'autore si appella "theologiae facultatis professor": dovette dunque scrivere e terminare il lavoro mentre insegnava nello "Studio" fondato a Napoli dagli Agostiniani, prima della sua elezione ad arcivescovo di Benevento, avvenuta il 3 settembre 1302. D'altra parte, poichè egli mostra di conoscere, come vedremo, negli ultimi capitoli del trattato, lo scritto "De potestate ecclesiastica" del suo confratello Egidio Romano che fu pubblicato, come abbiamo detto nel 1302 (probabilmente però sul principio dell'anno) non si può fissare la composizione del "De Regimine Christiano" ad una data anteriore alla primavera dello stesso anno.Esposizione del Contenuto del Trattato
L'autore, premessa un'epistola dedicatoria a Bonifacio VIII e un'introduzione o prologo, divide il suo trattato in due parti ineguali in ampiezza [Pag. 180] distendendosi la prima (nella quale sono spiegate la natura e le prerogative della Chiesa, regno di Dio) sino a sei capitoli, la seconda sino a dieci e questi molto più lunghi, perchè trattano della potenza regale e di quella sacerdotale, "circa quas", dice lo scrittore, "magis versatur huius Tractatus intentio, et praecipue circa regalem potestatem" (1). La dedica contiene termini di speciale riverenza ed una protesta di filiale devozione e sottomissione dell'autore alla Chiesa. Tre istituti secondo S. Agostino, (libro XVI della città di Dio), sorgono dall'unione degli uomini in comunità: la famiglia, la città, il Regno. Dei tre istituti il più elementare è la famiglia, mentre il più perfetto è il Regno, perché abbraccia un numero più grande d'individui, e quindi maggior beneficio arreca alla società (2). Giacomo da Viterbo prova con la Scrittura che la Chiesa partecipa della natura e finalità dei tre istituti, ma in modo speciale a lei conviene il nome di regno, perchè è formata da un numero immenso di membri appartenenti a tutte [Pag. 181] le nazioni, è diffusa in tutto il mondo, è dotata di tutti i mezzi atti a guidare le anime alla vita celeste, è stata ordinata al bene comune di tutto il genere umano, ed inoltre a guisa di un regno è divisa in Provincie, Diocesi, Parrocchie (3). E' un regno istituito da Cristo e perciò si chiama ecclesiastico; ad esso appartengono non solo i credenti che vivono in terra, ma anche gli angeli e i beati che furono assunti alla gloria dei cieli. A questo regno di Dio si oppone quello del mondo che può chiamarsi anche del diavolo: abbraccia i malvagi di questa terra e i dannati dell'inferno. Gli abitanti dei due regni vivono confusi in questa vita; ma poi, dopo morte, dovranno separarsi e ricevere il premio o il castigo a seconda delle loro opere buone o cattive. Abbiamo qui evidentemente un riflesso della concezione agostiniana delle due città del bene e del male, di Gerusalemme e di Babilonia, ma l'autore rinunzia a descrivere la città del male e si occupa soltanto del regno ecclesiastico, al quale riferisce la parola di David: "Gloriosa dicta sunt de te, Civitas Dei". Dieci prerogative rendono glorioso questo Regno: (4) l'istituzione legittima poichè deriva da Dio, [Pag. 182] l'antichità della sua origine (rimonta infatti agli angeli santi e ai primi uomini virtuosi), la sapienza ed armonia nella sua costituzione interna, la concordia che anima i membri che vi appartengono, la giustizia nella compilazione delle leggi che la governano, l'estensione del suo dominio che abbraccia popoli di tutta la terra, la dovizia dei beni temporali e spirituali, l'invincibilità contro i nenici, l'amore della pace, la durata che sarà eterna avendo l'Angelo predetto di Cristo: "Regnabit in domo Jacob in aetemum, et Regni eius non erit finis" (Luc. 1, 33-34). Queste doti si compendiano nelle quattro attribuite nel Simbolo apostolico o Credo alla Chiesa: unità, santità, cattolicità, apostolicità. La Chiesa o regno ecclesiastico è una, sebbene risulti formata da molti fedeli, perchè uno è il suo capo o fondatore, Cristo, uno il vincolo con il quale la grazia divina mediante la fede, speranza e carità, unisce tutti i cristiani, uno il fine verso cui tendono gli affigliati a questo Regno, la celeste beatitudine (5). E' universale perchè non è limitata nella sua estensione, ma i suoi confini coincidono con quelli del mondo, abbraccia tutte le genti nel suo dominio senza esclusione di stirpe o di casta, anzi essa valica i confini di questa terra e comprende nel suo ambito gli angeli e i beati, dividendosi [Pag. 183] in chiesa militante (con i fedeli che sono "in statu viatorum"), e chiesa trionfante (con i feddi che hanno già conseguito il premio celeste). Ed è anche universale in ragione dei sacramenti, che furono istituiti a rimedio generale di tutti i peccati (6). E' santa perchè fondata da Dio, fonte di ogni santità. Le dottrine che essa insegna sono immuni dall'errore, percbè dettate dallo Spirito Santo, e i sacramenti che conferisce ai fedeli offrono il rimedio contro i peccati. Essa è la depositaria del sangue della grande vittima che è il Cristo, è confermata nel bene contro il male, dicendosi degli apostoli che la governarono, ego confirmavi columnas eius e chiamandosi la Chiesa Columna et firmamentum veritatis (7). Iniziato, propagato prima dagli apostoli poi dai loro successori, il regno di Cristo è inoltre apostolico. Il capo degli apostoli, il vicario di Cristo nel governo generale della Chiesa fu Pietro, al quale lo stesso Redentore disse: Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam. I successori di Pietro nel corso dei secoli furono i Romani Pontefici e per mezzo di questi la Chiesa si ricollega all'età apostolica (8). [Pag. 184] La prima parte del trattato termina con la descrizione delle prerogative della Chiesa. L'autore ha sin qui celebrato e brevemente, come egli dice (9), la gloria del regno ecclesiastico, ora, nella seconda parte, lumeggerà e glorificherà la potenza del Papa, capo visibile di questo regno, vicario di Cristo, che, ne è il capo invisibile. Premessi alcuni paragrafi intorno alla potenza di Cristo, potenza che gli compete in quanto figlio di Dio e figlio dell'uomo, vero Dio e vero Uomo, unica persona in due nature, l'autore nel capitolo primo della parte seconda spiega come il Redentore sia il capo della Chiesa, come illumini con la sua sapienza le anime fedeli come le giustifichi con la sua grazia. Ed egli non solo santifica le anime credenti che sono le membra della Chiesa nella sua qualità di capo di esse, ma anche nella qualità di mediatore per modum capitis et per modum medii. Insignito della podestà regale e sacerdotale, il Cristo è l'anello di congiunzione fra la terra e il cielo avendo riconciliato Dio e l'umanità peccatrice da lui salvata e rinnovellata. Signore degli angeli e dei celesti, a lui appartiene ancora il governo dei beni temporali e terreni. [Pag. 185] Finchè visse in terra non volle amministrare il suo regno terreno, ma questo a lui appartiene, perché la Scrittura dice che gladius exit de ore eius ex utraque parte acutus. Spada dunque dal doppio taglio, uno per il dominio spirituale, l'altro per il materiale, ma una è la spada, una la podestà e i due domini non ne sono che due aspetti diversi (10). Il Cristo non poteva comunicare alla creatura, radicalmente incapace di riceverla, la potenza di creare, ma bene poteva comunicare la potestà sacerdotale e regale, anzi doveva trasmetterla, perchè per la salute del genere umano importava che questo potere non andasse perduto, e lo trasferì, di fatto, in altri, i quali a loro volta lo tramandassero ai propri successori (11). La potestà sacerdotale fu comunicata da Cristo agli apostoli e agli eredi della loro dignità. Il potere di rinnovare in perpetuo, sotto le specie del pane e del vino, il Sacrificio della Croce, lo trasmise quando nell'ultima cena, dice: Hoc facite in meam commemorationem: la facoltà d'insegnare e di amministrare i sacramenti la concedette quando pronunziò le parole: Euntes, docete omnes gentes baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Quorum remiseritis peccata remittuntur eis. [Pag. 186] La podestà regia nelle cose temporali fu tramandata ai re della terra o a quelli che, pure non avendone il titolo, di fatto ne esercitano il potere. Invece la potestà regio-spirituale il Divino Maestro volle che soltanto agli Apostoli e ai loro successori fosse affidata, quando disse loro: Quaecumque ligaveritis super terram, erunt ligata et in coelo. Tale facoltà di sciogliere e di legare implica quella di giudicare, che è una prerogativa della dignità regia. In modo speciale questo potere fu concesso al B. Pietro e per lui ai Romani Pontefici con le parole: Et tibi dabo claves Regni Coelorum. E la chiave è il simbolo della spirituale potestà, che può introdurre gli uomini al regno celeste od escluderli da esso. Giacomo da Viterbo riporta numerosi passi della Scrittura per dimostrare che gl'insigniti da Cristo della regia potestà spirituale hanno veramente il titolo e la dignità di sovrani. Però i Vescovi d'ordinario ricusano questo titolo, perchè esso mal si addice allo stato di mortificazione e di umiltà di seguaci del Vangelo, ed inoltre perchè vogliono distinguersi dai principi secolari e preferiscono assumere il nome di pastori, presuli, pontefici (12). [Pag. 187] La potestà sacerdotale fu istituita per santificare gli uomini; quella regia per governarli. Il sacerdote e il re formano il binomio su cui poggia ogni ordinamento sociale. Mediatore fra Dio e gli uomini, il sacerdote offre il sacrificio per l'espiazione dei peccati che l'umanità commette, porge alla Divinità i voti, le preghiere, le suppliche del popolo. Ai fedeli egli spezza il pane della scienza divina e dispensa le grazie che il Creatore concede agli uomini. Il Re è il custode e il vindice dei diritti che competono alla nazione a lui soggetta. Compito principale del regio ministero è legiferare, interpetrare le leggi, castigare i trasgressori di esse, premiare coloro che le osservano, procurare al popolo il benessere materiale, difendere il regno dai nemici interni ed esterni. I prelati della Chiesa hanno facoltà di esercitare tutti gli atti del culto di Dio. Insegnano alle moltitudini dei fedeli, dispensano i sacramenti che sono i veicoli delle grazie divine, giudicano nelle cause spirtuali, chiudono ed aprono le porte del regno celeste legando o sciogliendo dai peccati, stabiliscono le leggi e puniscono chi le trasgredisce. Sono dunque insigniti della doppia potestà sacerdotale e regio-spirituale. La potestà regale-spirituale è superiore in dignità a quella sacerdotale; infatti è maggiore la gloria di Cristo Re che quella di Cristo sacerdote. [188] Egli è sacerdote in quanto uomo, è Re in quanto Dio e uomo: come sacerdote offrì se stesso e riconciliò il genere umano con la divinità offesa, come Re egli è giudice e custode del regno. Nei prelati della Chiesa la potestà regia si chiama di giurisdizione, mentre la sacerdotale si appella dell'ordine, ed è proprio la giurisdizione che importa la prelatura, mentre l'ordine importa la mediazione e il ministero (13). Tanto i vescovi quanto i sovrani fanno parte di gerarchie alla sommità delle quali, sorpassata una serie di gradi di autorità, stanno l'imperatore da una parte, nella gerarchia laica, ed il papa dall'altra, nella gerarchia ecclesiastica. Ma l'autorità temporale deve sottostare a quella spirituale, perché il dualismo non era ammesso nella filosofia medioevale non solo nella creazione, ma neanche nel governo degli uomini. E l'uno, secondo le idee di quel tempo, ha ragione di bene massimo, poichè uno è il principio motore della natura, una la ragione, facoltà dell'anima umana che muove le altre, una la chiesa fondata da Cristo: uno deve essere il capo supremo della Cristianità. Ed essendo lo spirito superiore al corpo, colui che regna nello spirituale, il Romano Pontefice, ha l'alto dominio anchè nelle cose temporali. Per salvare il principio dell'unità, gli scrittori [Pag. 189] ghibellini al sommo del vertice della scala delle due gerarchie, laica ed ecclesiastica, ponevano Dio da cui ambedue derivano, ma i due poteri non si fondevano bene in questa terra ed essi asserivano che si sarebbero fusi nella vita oltremondana; ma gli scrittori curialisti vi mettevano il papa, ed il principio dell'unità era meglio salvaguardato. Al sommo pontefice Giacomo da Viterbo scioglie un inno appellandolo, con S. Bernardo, principe dei Vescovi, erede degli apostoli, insignito del primato di Abel, del dominio di Noé, del patriarcato di Abramo, dell'ordine di Melchisedec, della dignità di Abramo, dell'autorità di Mosè, della potestà di Pietro (14). Il potere regio-spirituale a lui attribuito è superiore al regio-secolare. Le due potestà, spirituale e temporale, pure avendo ciascuna una sfera propria d'azione (l'una ha per scopo il fine ultra mondano a cui dirigere le anime, l'altra la perfettibilità naturale a cui indirizzare gli uomini), hanno molti punti di contatto. Riguardo all'origine ambedue derivano da Dio, in rapporto al soggetto e all'oggetto tutte e due risiedono nell'uomo e per l'uomo furono istituite, in relazione al fine l'una e l'altra tendono al raggiungimento della perfettibilità e felicità del genere umano. Alcuni [Pag. 190] scrittori asseriscono che la potestà temporale, indipendentemente dal potere ecclesiastico deriva direttamente da Dio; altri al contrario affermano che le due potestà sono comunicate da Dio immediatamente al Papa, il quale esercitando da sè la spirituale, trasmette all'imperatore la temporale. L'autore combatte la prima opinione e vuole attenuare la seconda. In modo iniziale e materiale, il potere temporale emana direttamente da Dio in quanto trae la sua prima origine dalla naturale inclinazione degli uomini ad associarsi per formare uno stato, e questa inclinazione è opera di natura e perciò di Dio; in modo perfetto e formale deriva dalla potestà spirituale, della quale immediatamente investito da Dio il Papa. Ogni potere umano è imperfetto ed informe se non viene sanzionato e perfezionato dal potere spirituale, la cui pienezza è posseduta dal Romano Pontefice. Occorre quindi che il Vicario di Cristo designi la persona che deve ricevere la potestà secolare, o almeno che confermi e convalidi la sua elezione nel caso che la designazione sia già stata fatta, perchè il sovrano temporale puo governare per diritto umano i semplici uomini, ma gli occorre il diritto divino per regnare sopra i sudditi battezzati. E chi è il dispensiere del diritto di Dio, se non il Papa? [Pag. 191] Al Sommo Pontefice i principi di questa terra devono ubbidire come a Cristo medesimo di cui egli è il Vicario, e i sudditi in un conflitto tra il papa e l'imperatore devono parteggiare per il primo contro il secondo. Al vescovo di Roma fu concessa anche la facoltà di giudicare e punire con pene spirituali e temporali i sovrani indegni del trono (15). Il Sommo Pontefice non fu investito di due potestà distinte, la spirituale e la secolare, ma di un solo potere che abbraccia il temporale e lo spirituale. L'autorità ecclesiastica, per regola generale, non s'immischia nei negozi politici e terreni per non avvilire la sua dignità. Soltanto per fini altissimi et certis causis inspectis, i grandi dignitari della Chiesa prendono parte alle faccende temporali. Così gravi motivi li spingono a imporre le decime, ad evocare a sè molte cause civili, come quelle intorno al matrimonio, alla legittimazione dei figli, alla non ossevanza dei patti confermati con giuramento. Spetta anche al potere ecclesiastico intervenire nel temporale quando è vacante l'Impero e quando il Principe abusa della potenza a lui affidata con grave danno dei sudditi. La potestà temporale del Romano Pontefice derivata da Dio, è stata confermata dal diritto umano quando [Pag. 192] Costantino donò a Papa Silvestro e ai suoi successori il regno terreno e concesse l'uso delle insegne imperiali. Ma questa concessione non fu il principio del dominio temporale dei Vicari di Pietro, bensì un riconoscimento pratico ed esterno del diritto di essi a questo dominio. I principi hanno molti doveri: Giacomo da Viterbo ne enumera i principali (16). La potenza del Vicario di Cristo è pienezza di potestà pontificale e regale. Ogni uomo che appartenga alla Chiesa militante è suddito del Romano Pontefice, nel cui potere tutti gli altri poteri, temporali e spirituali, costituiti da Dio per il governo dei fedeli, sono compresi. Egli limita, ordina, giudica le potenze della terra, e di tutte è il principio e la fine. Si può veramente dire che il suo potere è sine pondere, numero et mensura. A lui, chiudendo il capo nono, l'autote rivolge le stesse parole che S. Bernardo scriveva a papa Eugenio nel secondo libro "De Consideratione": Glorifica brachium dextrum, in faciendo vindictam in nationibus et increpationes in populis, alligando reges eorum in compedibus et nobiles eorum in manicis ferreis (17). L'ultimo capitolo, il decimo (18), riporta e confuta alcuni degli argomenti di cui si servono [Pag. 193] gli scrittori avversi al potere teocratico per abbattere la supremazia politica pontificia. Contro coloro che pur concedendo al Vicario di Pietro la facoltà di scomunicare i principi della terra, negano che egli possa privarli del regno, Giacomo da Viterbo risponde che la stessa autorità può espellere dalla Chiesa i membri viziosi rivestiti della dignità regia o imperiale, può anche sciogliere i sudditi dall'obbedienza verso il principe indegno, affinchè il popolo cristiano sia difeso dai cattivi esempi e dalle vessazioni di chi lo governa. A chi obbietta essere il clero sottoposto al potere laico almeno per riguardo al possesso delle cose temporali, distingue il nostro autore tra i beni materiali posseduti dalla Chiesa per diritto divino, e quelli per diritto umano. I primi, quali le primizie, le decime destinate al sostentamento dei ministri del culto, non dipendono dalla potestà secolare perchè connessi in certa modo con lo spirituale, i secondi, quali i beni avuti per titolo di vendita e di concessione, non vanno esenti dalla potestà secolare: pro his debet potestas spiritualis principibus temporalibus consueta obsequia et tributa (19). Rivendica un foro civile e penale a parte, il tribunale ecclesiastico, alle persone addette al culto divino. Alla Chiesa assegna ambedue le spade, la spirituale e la temporale, la prima ad usum, la [Pag. 194] seconda ad nutum del potere spirituale. Nè vale addurre l'esempio di Cristo che fugge gli onori mondani e non vuole essere chiamato re. Altri tempi quelli, altri bisogni ora nella società. Se Cristo non volle esercitare la sua potenza secolare, non segue che il Figlio dell'Uomo non fosse signore nello spirituale e nel temporale e non potesse commettere a Pietro tutti quei poteri di cui era investito per la conservazione e il progresso perenne della Chiesa. E' compito di Pietro, cioè del papa "pro tempore", avvalersi di tutti i mezzi, di tutta la potenza anche nelle cose materiali che il Divin Maestro ha posto nelle sue mani, per assolvere nel miglior modo possibile l'altissimo ufficio dalla provvidenza a lui affidato.
Il trattato di Giacomo da Viterbo è teorico, serenamente scientifico, con qualche spunto di polemica, ma non personale. Il filosofo agostiniano accoglie le voci dei tempi passati e presenti, le fonde e le esprime con la coscienza del momento storico in cui egli scrive. A differenza del trattato di Egidio che risente della fretta con cui l'autore dovette comporlo perchè ha il difetto di frequenti e superflue [Pag. 195] ripetizioni di concetti e di frasi (20), il "De Regimine Christiano" ha tutto l'andamento di una ponderata ed elaborata trattazione. La solida e simmetrica ossatura del trattato, il cui pregio sovrano, comune del resto a tutti gli scritti dell'epoca, è una grande chiarezza ed una grande logica, non ci permette di scorgere esaltazione da parte dello scrittore, ma basta riflettere sugli avvenimenti così appassionati di quel tempo per comprendere che sotto la freddezza apparente della forma, una grande vampata di entusiasmo doveva ardere, impedita dalla veste scientifica e sillogistica del libro di divampare altre lo stato di cenere che lo copriva. Le sue fonti sono quelle comuni a tutte le opere congeneri dell'epoca: il dictatus papae, le decretali di Bonifacio VIII, gli editti di Costantino e di Teodosio, la prammatica sanzione giustinianea; la pseudo-donazione costantiniana, la letteratura canonista antecedente, gli scritti di S. Agostino, S. Bernardo, dell'Areopagita, dei due Vittorini, Ugo e Riccardo. Il "De Regimine principum" di S. Tommaso e quello di Egidio Romano non dettero a lui armi valide per la polemica, perché non si occupavano del papa [Pag. 196] se non incidentalmente. Più frequenti sono i punti di contatto con l'altra opera di Egidio, "De Potestate ecclesiastica", ma mentre Giacomo tratta dell'intera organizzazione della Chiesa e cerca di risolvere altri quesiti che il trasformarsi dell'antica società pagana in cristiana presenta alla sua mente di studioso, il suo confratello si limita soltanto a trattare la questione papale. Non si può negare che Giacomo dipenda da Egidio in molte concezioni, specialmente nella descrizione delle relazioni fra il regno spirituale e quello temporale, ma dobbiamo collo Scholz tributare una certa originalità al trattato del filosofo viterbese (21). Come vedremo le vedute nuove del "De Regimine Christiano" non sono poche. Anche grande affinità esiste fra il libro del filosofo viterbese e la Bolla "Unam sanctam", la più solenne affermazione della dottrina teocratica nel Medio Evo. Ambedue gli scritti, dopo aver premessa la defìnizione della Chiesa e averne decantata la grandezza, si diffondono a parlare, nella prima parte, delle prerogative attribuite ad essa nel Credo o Simbolo Apostolico, e nella secqonda parte spiegano l'essenza del potere teocratico e i suoi rapporti con quello secolare. [Pag. 197] Le somiglianze di forma e di esposizione, le affinità dei concetti ci fanno sospettare che anche l'opera di Giacomo da Viterbo oltre quella di Egidio Romano, pubblicata in occasione del sinodo romano dell'ottobre 1302, sia servita alla redazione della celebre bolla. Per Aristotele la politica è la dottrina della moralità individuale. Egli comincia col dimostrare che l'uomo è per natura socievole, άνθρωπος φύσει πολιτικόν ζώον: θ spinto irresistibilmente dalla sua inclinazione naturale all'associazione politica. Ed ecco il costituirsi dell'organizzazione statale nella societΰ. Lo Stato θ un organismo morale la cui finalità è immanente nella vita sociale e i cui poteri si distribuiscono fra i cittadini. Nei libri della "Politica" balza chiaro il concetto che l'attività morale dell'individuo presuppone una condizione e un complesso nello Stato, e fuori di esso l'individuo non è neppure pensabile (22). A questa concezione aristotelica largamente s'ispira Egidio Romano nel "De Regime Principum", mutando poi bruscamente ispirazione e idee nel De Potestate Ecc1esiastica. In quest'ultimo trattato la Chiesa viene rassomigliata all'anima e lo Stato al corpo, e, dovendo il corpo, di sua natura inferiore allo spirito, assoggettarsi all'anima, anche il potere laico deve [Pag. 198] sottoporsi al sacerdotale. E' perciò compito dello Stato procurare all'uomo i mezzi della vita materiale; compito della Chiesa provvedere ai bisogni elevati dello spirito. Soltanto la tutela del corpo e dei beni temporali viene affidata al potere civile (23). Ogni elemento spirituale viene negato allo Stato, in quanto Stato; solamente la Chiesa può fornirglielo. Invece nel "De Regimine Principum" l'istituzione statale proviene naturalmente dall'essenza stessa dell'uomo. Nella scala della comunità prima viene la famiglia, poi il villaggio, terza la città. "Natura, dice Egidio seguendo Aristotile, quidem impetus in omnibus inest ad talem comunitatem, qualis est comunitas civitatis" (24). [Pag. 199] Lo Stato ha una propria finalità: rendere non soltanto possibile l'esistenza ai cittadini, ma procurar loro una vita agiata e virtuosa, "vivere, sufficenter vivere, et virtuose vivere" (25). Inoltre, (e ciò prova anche la sua istituzione naturale), suo ufficio di capitale importanza è di assicurare la giustizia ai propri amministrati; "si ergo communitas domestica ordinatur ad prosequendum conferens, et ad fugendum nocivum: communitas vero civitatis ultra hoc ordinatur ad prosequendum iustum et ad fugiendum iniustum, oportet communitatem domesticam et civilem esse quid naturale" (26). L'uomo non può vivere se non associato: soltanto un bruto o un Dio potrebbe scegliere la completa solitudine (27). Parlando della legge Egidio la distingue in naturale e positiva. Nè la legge di natura nè quella positiva hanno bisogno del ministero ecclesiastico che le promulghi; perchè la prima è scolpita nel cuore degli uomini e quindi ciascuno di noi la conosce appena perviene all'uso di ragione (28), la seconda è un complemento necessario [Pag. 200] della prima e non è in contrasto con essa e può il potere civile emetterla e interpretarla (29). Oltre il diritto umano esiste quello divino promulgato da Dio. Diverso è il campo dei due diritti: l'umano non giudica l'intenzione dei trasgressori delle leggi, "prohibet manum et non amimum", il divino invece punisce "tam delicta interiora quam exteriora" (30). Nell'ambito suo la legge basta a se stessa, ha un proprio fine. Egidio non lo dice chiaramente, ma lo suppone quando asserisce che le leggi naturali e divine, sebbene non siano valevoli a farci conseguire il fine soprannaturale, nondimeno ci aiutano "ad consecutionem illius boni quod possumus naturaliter adipisci" (31). In un'altra opera, nel "Commentario delle sentenze" egli esprime una concezione abbastanza nuova della potestà in genere. "Tutta la potenza, egli dice, è da Dio soltanto generaliter in quanto ordo est: un diritto su di essa viene acquistato soltanto per l'unanime volontà del popolo" (32). [Pag. 201] In tal modo l'ordo è la base trascendente e divina della potenza, la iurisdictio ne è la base materiale che deriva unicamente dall'investimento umano. A distanza di pochi anni Egidio da Roma, divenuto campione della potenza pontificia, ben poche teorie aristotelico-tomiste accoglie nel De Potestate ecclesiastica. A queste teorie si avvicina più decisamente Giacomo da Viterbo nel Dé regimine Christiano. Tutte le diverse comunità, famiglia, città, regno, hanno l'origine da un istinto naturale, perchè sorgono allo scopo di giungere alla sufficienza della vita (33). La famiglia, la domus, è il ponto di partenza, secondo l'ordo naturalis, della civitas e del regnum. Ma in Aristotele l'individuo e la famiglia da un punto di vista soltanto relativo e temporale precedono lo Stato, mentre sotto il rapporto di [Pag. 202] supremazia ideale lo stato precede la famiglia e l'individuo, come il tutto precede le parti che lo compongono. Lo Stagirita pone nelle sue relazioni di dominio l'elemento essenziale e caratteristico dello stato. Egli distingue fra la vita sociale e la politica, fra il potere che compete al capo di famiglia e quello che spetta al capo dello Stato. In Giacomo da Viterbo è invece fondamentale il concetto dell'equazione di tutte le forme di comunità sociali e politiche. La civitas è più perfetta della domus, il regnum della civitas, soltanto per ragione del numero più grande di membri che abbracciano nel loro governo (34). E poiché i segni esteriori di larghezza di spazio, di numero di membri si ravvisano maggiormente nella Chiesa, essa è il regno per eccellenza, un vero stato perfetto terrestre (35). [Pag. 203] Questo regno ecclesiastico ebbe origine da Cristo che lo affidò al suo Vicario, cui perciò spettano tutti i poteri e le prerogative di un sovrano. Giacomo da Viterbo unisce in una strana combinazione il concetto dell'impero terreno-mondiale con quello teologico-morale della Chiesa, potenza spirituale. E non soltanto concepisce la Chiesa come una congregatio politica, ma asserisce che fuori di essa non esiste comunità che possa a buon diritto chiamarsi Stato, res publica. Eppure, malgrado queste premesse, egli riconosce al potere secolare il diritto all'esistenza. Egidio Romano dichiara che gli stati non istituiti dalla Chiesa non sono che quaedam magna latrocinia. Giacomo combatte quest'opinione (36): egli vuol porre su un fondamento nuovo scientifico il sistema politico ecclesiastico del sito maestro. Non esistono due potente essenzialmente differenti, ma soltanto due gradi di sviluppo di una forza sola, dell'unica potestà che ha due poteri, il secolare (regale) e lo spirituale (sacerdotale) (37). [Pag. 204] Il primo potere non deve la sua esistenza a Dio immediatamente, ma all'inclinazione naturale dell'uomo al vivere sociale. Soltanto la perfezione proviene dalla potestà spirituale alla potenza secolare (38). Lo Stato presso [Pag. 205] pagani e gl'infedeli è legalmente costituito, per quanto imperfetto, e legalmente costituito fu l'impero romano che estese il dominio su tutta la terra; e Costantino, legittimo imperatore, validamente cedette il regno al Romano Pontefice. Ma il diritto umano non concede ai sovrani che il potere di governare i sudditi come uomini; la potestà su di essi come cristiani non proviene che dal diritto divino. Dopo l'avvento di Cristo, i potenti della terra per regnare devono essere consacrati dal papa. Ma mentre per Egidio l'imperatore prima della consacrazione è un semplice uomo, privo di qualsiasi dignità, per Giacomo invece è già sovrano in potenza, ha già in sè la materia di tale potere, la consacrazione non è che la forma che la riduce all'atto (39). [Pag. 206] Innegabilmente Giacomo riconosce ed acceutua la forza naturale dello Stato: anche nel regno ecclesiastico la potestà regale è più nobile di quella sacerdotale, la jurisdictio supera in dignità l'ordo. Nel concepire le relazioni del potere teocratico con il principato secolare, Giacomo dipende interamente da Egidio. Parecchie volte con un ut quidam docti dicunt, arguunt quidam, egli si riferisce al suo maestro e confratello. Specialmente nelle conseguenze pratiche egli rimane, anche quando innesta qualche idea nuova al sistema politico ecclesiastico, sul punto delle teorie d'Egidio. Due sono i principi fondamentali che regolano i rapporti fra le due potestà, spirituale e temporale. Tutti i diritti che spettano al potere secolare spettano anche, e in modo più eccellente, allo spirituale: tutti i beni materiali che appartengono immediate alla potenza laica appartengono mediate alla sacerdotale (40). Giacomo non si discosta dalle idee dei teologi ponfifici del tempo. [Pag. 207] Forse aggiunge alcunché di suo, quando afferma che il principe secolare può qualche volta ottenere una certa supremazia sul potere sacerdotale. E ciò può verificarsi o quando egli è strumento dei re spirituali, (papa o vescovi) che si servono di lui per far sentire la loro potenza al sacerdote non insignito della potestà regio-spirituale, o quando la persona ecclesiastica dipende, "in aliquibus temporalibus" dal sovrano laico (41). Alla controversia della collazione dei benefici ecclesiastici, Giacomo dedica poche righe, conformandosi in tutto alle leggi espresse nelle decretali e nel diritto canonico. Nega ai laici ogni facoltà di conferire i benefici, e di riceverne l'investitura senza il permesso dell'autorità ecclesiastica. Quando il principe secolare, dietro concessione del potere religioso, conferisce i benefici della Chiesa, agisce in nome della potestà spirituale e non è [Pag. 208] quindi che l'esecutore delle disposizioni di essa (42). Anche l'altra questione dell'imposizione delle decime sui beni ecclesiastici da parte dell'autorità temporale, che aveva fornito a Bonifacio VIII il pretesto per aprire la lotta contro Filippo il Bello, viene da Giacomo appena sfiorata. Le decime sono di origine eminentemente ecclesiastica, il potere religioso le aveva istituite per sostentare i ministri di Dio. I laici devono soddisfare a questa obbligazione anche in riconoscimento della superiorità della potestà spirituale (43). Il principe secolare non può imporre balzelli sui beni che la Chiesa possiede per dirittto divino, quali sono le primizie, le decime, le offerte dei fedeli devolute al sostentamento dei [Pag. 209] ministri del culto; può imporli soltanto sui beni che per diritto umano appartengono alla potestà spirituale, la quale, anche in tal caso, non intende riconoscere una qual si voglia superiorità o dominio della potenza civile, ma si rassegna a pagare il tributo quasi stipendium pro pace et quiete (44). Ma Giacomo da Viterbo non spiega chiaramente il suo concetto, accenna appena fugacemente ai beni provenienti dal diritto umano, nomina soltanto quelli che spettano alla chiesa titulo venditionis et concessionis, non agita la questione allora tanto dibattuta se abbia o no il re la facoltà di richiedere ai chierici le decime per i beni di natura feudale. Lascia al lettore la libertà di trarre un giudizio dalle sue premesse.
Il trattato di Giacomo da Viterbo fu probabilmente conosciuto da Dante. Nelle sue opere il grande poeta non cita mai il filosofo viterbese, ma forse il suo silenzio è originato dal fatto che lo scrittore agostiniano è un avversario dichiarato di quell'idea imperiale che egli tanto caldeggiava. Ma l'analogia di forma e di ripartizione di materia che a prima vista si può osservare fra [Pag. 210] l'opera del filosofo curialista e il De Monarchia, ci fa sospettare che Dante abbia conosciuto il trattato del vigoroso avversario dell'impero. Inoltre numerosi argomenti che Giacomo addusse a sostegno della sua tesi, ribatte il divino Poeta nella Monarchia. E forse non a torto è sembrato al Vossler che la dottrina dantesca sull'origine divina delle due potestà, religiosa e laica, sia particolarmente diretta contro la teoria di Giacomo da Viterbo dell'unica potestà suprema alla quale compete il potere secolare e spirituale (45). Ma quanta diversità d'ispirazione, e di concetto fra i due agostiniani da una parte e Dante dall'altra! L'Alighieri è il primo filosofo laico che nel Medio Evo riconosce allo Stato tutta la sua funzione civile. Egli addita nell'impero il mezzo per giungere alla beatitudine naturale, il freno per reprimere le umane cupidigie che, sfrenate, impediscono il conseguimento della felicità, il rimedio attraverso cui l'uomo possa donare alla volontà fatta conforme a ragione e a giustizia, la forza di tendere al fine naturale, superando la infirmitas che il peccato originale produsse nell'umana natura. L'impero universale che Dante vagheggia, sebbene derivato immediatamente da Dio, è l'organo della giustizia naturale ed umana. [Pag. 211] Noi non possiamo negare che un grande soffio d'idealità animi i sistemi politici escogitati nel Medio Evo. Le dottrine politiche di quell'età si risolvono quasi sempre in una visione mistica della felicità umana e confinano con l'utopia e con il sogno. In tutti i filosofi e scrittori che trattavano dell'organizzazione statale della società, nei papi e negli imperatori, al desiderio naturale di veder trionfare il proprio partito si accoppiava la speranza di procurare al genere umano il regno della pace e della felicità, il nuovo Paradiso terrestre. Il potere universale che abbracciava tutti i popoli senza tener conto delle loro eventuali aspirazioni nazionali, doveva servire a togliere i contrasti e le lotte tra nazione, e nazione, lo scatenarsi dei conflitti prodotti dall'ambizione di dominio. In Dante questa mistica visione si colora di una fiamma più pura di motivi idealistici, egli intravede nell'avvenire la fratellanza dei popoli per mezzo della pace, concetto già espresso da S.Tommaso che ripone nell'unità quae dicitur pax la salvezza della moltitudine associata. L'impero esce spiritualizzato dalle pagine di Dante, sollevato ad un'altezza prodigiosa, nè la sfortuna che seguì l'impresa di Enrico VII valse a togliergli la fede nel suo ideale, cui sempre si mantenne fedele, negli anni giovanili e in quelli tardi, nei tempi prosperi e negli avversi. [Pag. 212] Noi dobbiamo giudicare il trattato di Giacomo da Viterbo tenendo conto dell'età in cui fu scritto. Nell'aspro conflitto tra i legisti del re di Francia e i teologi pontifici, esso fu un'arma valida di difesa, un modello di trattazione e di polemica serrata a favore del potere teocratico. Per lungo tempo gli scrittori curialisti si servirono della forma letteraria e degli argomenti a loro prestati dal filosofo viterbese: alla sua opera s'ispirarono Alessandro da S. Elpidio, Agostino Trionfo, Alvaro Pelagio. Nel campo teologico il "De Regimine Christiano" iniziò poi una vera riforma di quel genere di studi che sono compresi sotto il nome di ecclesiologia. Il libro dello scrittore agostiniano è il primo lavoro scientifico, nella storia della teologia, sugli elementi costitutivi dell'essenza della Chiesa e l'estensione dei poteri che furono affidati al suo Capo visibile, il merito di aver messo in luce questo carattere del trattato che abbiamo esaminato spetta a M. H. X. Arquillière, professore di storia nell'Istituto cattolico di Parigi, che in un lucido esame delle fonti dell'idee politiche da Giacomo da Viterbo propugnate, nel volume già da noi citato, rivendicava questo non piccolo vanto all'opera dell'insigne maestro eremitano (46).
NOTE
(1)
Tractatus, I, cap. III, pag. 80. Cito l'edizione già menzionata del Perugi.(2)
Tractatus, I, cap I, pag. 11. Nam illa comunitas est perfectior quae ad magis bonum ordinatur. Bonum autem tanto maius quanto communius; unde quia in Civitate intenditur bonum plurium quam in Domo: ideo Civitas Domo perfectior est et Regnum perfectius Civitate.(3)
Tractatus, I, cap. I, pag. 13.(4)
I cap. II, pagg. 17-31.(5)
I cap. III, pagg. 23-34.(6)
I cap. IV, pagg. 35-40.(7)
I cap. V, pagg. 41-47.(8)
I cap. VI, pagg, 49-53.(9)
I cap. VI, pag. 53: "Et in hoc terminatur Primus Tractatus huius operis, in quo de Regni Ecclesiastici gloria breviter actum est".(10)
II, I, pagg. 57-70.(11)
II, II, pagg. 71-77.(12)
II, III, 79-91.(13)
II, V, pagg. 105-122.(14)
II, VI, pagg. 123-128.(15)
II, VII, pagg. 129-143.(16)
II, VII, pagg. 143-161.(19)
II, pag. 180.(20)
Lo confessa l'autore stesso, II, 12: "Forte videbitur multis quod non sit in hoc opere latitudo sermonis secundum exigentiam rei, sed sint ibi plures sermones quam praesens requirit materia, eo quod videatur unum et idem multocies repetitum".(21)
RICHARD SCHOLZ, Die Publizistik zur zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII in "Kirchenrechtliche Abhandlungenher". Von Ulrich Stutz, Stuttgart, Enke 1903, pag. 139.(22)
Cfr. DE RUGGIERO, Storia della filosofia, parte prima, Vol. II, pagg. 55-58.(23)
Si notino le parole del "De Potestate Ecclesiastica", I, VI, pag. 21: "Sumus enim creatura Dei et factura Dei, et fecit et formavit nos Deus ex duobus, corpore videlicet et spiritu, et ideo ordinavit et propinavit nobis duplicem cibum, corporalem per quem sustentaretur corpus et spiritualem per quem reficeretur anima: et quia homo poterat impediri in utroque, et in corporali cibo et in spirituali, ordinavit duplicem gladium, materialem, ne impediremur in corpore nec in corporali cibo; et hoc spectat ad potestatem terrenam, cuius est defendere et tueri corpora et possessiones, ex quibus habet esse corporalis cibus: ordinavit nihilominus etiam gladium spiritualem, idest potestatem ecclesiasticam et sacerdotalem, ne impediremur in spirituali cibo et in his quae spectant ad bonum animae".(24)
De Regimine Principum, III, I, I, pag. 402. Cito l'edizione stampata in Roma nel 1607 a cura di FR. GIROLAMO SAMARITANO, maestro in S. Teologia.(25)
De Regimine Principum, III, I, II, pag. 404.(26)
Ibidem, III, I, IV, pag. 410.(27)
Ibidem, III, I, III, pag. 407.(28)
De Regimine Principum, III, II, XXVII, pag. 528: "Nam lex naturalis est a Deo indita in cordibus nostris: ideo in quolibet homine haec promulgatur et propalatur, quando incipit habere rationis usum, per quam cognoscit quid sequendum et quid fugiendum, secundum quod haec pertinent ad ius naturale.(29)
L'autore non lo afferma chiaramente, ma può ricavarsi dalle sue parole. Ad esempio circa il diritto di punire, dice che "naturale est ergo talia punire, sed ea punire sic, vel sic, est positivum et ad placitum" (III, II, XXIV, pag. 519).(30)
"De Regimine Principum", III, II, XXX, pag. 536.(31)
Ibidem, III, II, XXX, pag. 537.(32)
Cfr. SCHOLZ nell'op. cit. pag. 57, nota 56, che riporta il passo dal Kraus, in "Dante, sein Leben und sein Werk etc...", pag. 41.(33)
De Regimine Christiano, I, I, 10: "Harum autem communitatum seu societatum institutio ex ipsa hominum naturali inclinatione processit ut Philosophus ostendit p° politicorum. Homo enim naturaliter est animal Sociale, et in multitudine vivens, qaod ex naturali necessitate provenit, eo quod unus homo non potest sufficienter vivere per se ipsum, sed indiget ab alio adiuvari: Unde et sermo datus est homini, per quem alio homini suum conceptum exprimere possit, et per hoc, utilius aliis conimunicare et convivere. Quia igitur naturale est homini vivere in societate, ideo naturalis inclinatio inest hominibus ad Communitates predictas, ordine tamen quodam, quia primo ad Domum, deinde ad Civitatem, consequenter ad Regnum".(34)
De Regimine Christiano, I, I, pag. 11.(35)
Ibidem, I, I, pag. 13: "Et Licet his tribus nominibus communitatem designantibus recte nominetur Ecclesia, magis tamen proprie Regnun vocaretur, tum quia Ecclesia magnam multitudinem comprehendit ex diversis populis et nationibus collectam, et toto orbe terrarum diffusam et dilatatam, tum quia in Ecclesiastica communitate omnia, quae hominum saluti et spirituali vitae suffcient, reperientur, tum quia propter omnium hominum commune bonum instituta est, tum quia ad instar Regni intra se continet aggregationes plurimas ad invicem ordinatas, ut Provincias, Dioceses, Parrochias et Collegia.(36)
De Regimine Christiano, II, VII, pag. 131.(37)
Ibidem, II, VIII, pag. 146: "secundo considerandum est, quod cum dicitur potestas temporalis praeexistere in illo apud quem est spiritualis, non ita est intelligendum, quasi duas potestates diversas et distinctas habeat, sed quia per unam suam potestatem super spiritualia et temporalia potest. Nam inferiora sunt in superioribus unitive et quod in inferioribus distinguitur, in superioribus unitur. Dicitur tamen in ipso esse duplex potestas propter respectum ad actus diversos: nam prout exercet actus spirituales et administrat spiritualia, dicitur habere potentiam spiritualem, prout autem dirigit, consulit et imperat in temporalibus, dicitur habere potestatem temporalem.II, X, pag. 181: "Potest etiam dici quod potestas regia spiritualis et temporalis non sunt duae potentiae, sed due partes unius potestatis regiae perfectae, quarum una solum est in regibus terrenis et modo inferiori, in spiritualibus autem est utraque et modo eccellentiori. Unde in praelatis ecclesiae et praecipue in summo praelato potestas regia tota et perfecta et plena, in principibus autem saeculi est secundum partem et diminutam, nempe quantum ad temporalia tantum".
(38)
Ibidem, pag. 131: "Institutio potestatis temporalis materialiter et inchoative habet esse a naturali hominum inclinatione, ac per hoc a Deo in quantum opus nature est opus Dei: perfective autem et formaliter habet esse a potestate spirituali: quae a Deo speciali modo derivatur. Nam gratia non tollit naturam, sed perfecit eam et format. Et similiter id quod est gratiae non tollit id quod est naturae, sed illud format et perficit. Unde quia potestas spiritualis gratiam respicit, temporalis vero naturam, ideo spiritualem temporalem non escludit, sed eam format et perfecit. Imperfecta quidem et informis est omnis umana potestas, nisi per spiritualem et formatur et perficiatur. Haec autem formatio est approbatio et rectificatio. Unde potestas humana, quae est apud infideles, quantuncunque sit ex inclinatione nature, ac per hoc legitima, tamen informis est, quia per spiritualem non est approbata et rectificata: similiter illa, quae est apud fideles, perfecta et consumata non est, donec per spiritualem faerit rectificata et approbata".(39)
Ibidem, pag. 132: "Nulla igitur potestas saecularis est omnino vera et perfecta, nisi per spiritualem rectificetur, approbetur et confirmetur. Unde unctio regibus adhibetur non solum in signum sanctitatis, quae ei requiritur: sed etiam in signum approbationis et formationis: a pontificibus reges unguntur: quia per spiritualem potestatem, perficitur et formatur illa, quae temporalis dicitur. Et ideo spiritualis potestas potest dici quodam modo forma tomporalis: eo modo quo lux dicitur forma coloris. Color enim habet aliquid de natura lucis, tamen ita debilem habet lucem, quod nisi adsit lux exterior, per quam formatur non inherenter, sed virtualiter, non potest movere visum. Et similiter temporalis potestas habet aliquid de veritate potentiae, cum sit ex iure humano, quod a natura oritur, sed tamen imperfecta et informis est, nisi formetur per spiritualem. Hoc modo institui dicitur per spiritualem, ac si diceretur, quod eam benedicendo sanctificat et formando instituit.(40)
De Regimine Christiano, II, VIII, 143: "Quaecumque sunt sub potestate temporali, sunt etiam sub spirituali, non autem e contra, ut dictum est. Omnia bona temporalia, quae substant potestati temporali, substant etiam spirituali, non tamen eodem modo, quia temporali substant immediate, spirituali mediate"; pag 144: "Omnes actus, qui conveniunt potestati temporali conveniunt etiam spirituali, non tamen eodem modo, sed excellentius".(41)
Ibidem, II, IV, pag. 104: "Potestas autem regia temporalis in quantum temporalis est inferior, et minus digna quam sacerdotalis, quae spiritualis est. Sed potest esse superior ea vel in quantum huiusmodi potestas regia istrumentum est regie potestatis spiritualis, quae superior est sacerdotali, vel prout sacerdotalis simplex persona in aliquibus temporalibus, quibus utitur, dependet a rege terreno".(42)
De Regime Christiano, pag. 145: "Si enim persona laica non potest accipere beneficium ecelesiasticum, multo minus nec ius conferendi aliis potest sibi convenire. Potest tamen instrumentaliter et ministerialiter ad collectionem aliquid operari, presentando vel nominando vel aliquid simile faciendo. Unde quando princeps temporalis dicitur conferre beneficium ecclesiasticum ex concessione potestatis spiritualis, talis collatio est a potestate spirituali, sicut habente auctoritatem, a principe autem est sicut a ministerium exhibente in hiusmodi collatione, presentando vel exprimendo personam beneficio aptam, aut dignam".(43)
Ibidem, II, VII, pag. 139: "Princeps secularis et qui ei substant de suis temporalibus censum volvunt potestati spirituali scilicet decimas igitur potestas ipsa spiritualis etiam quantum ad temporalia potest praeesse principibus et principum subditis; cui enim de suis bonis decimas iure annui, census solvit de iure divino, illam se superiorem eodem iure agnoscit".(44)
De Regime Christiano, II, X, pag. 180.(45)
KARL VOSSLER, La Divina Commedia studiata nella sua genesi e interpretata. Trad di Stefano Iacini. Vol. I, Parte II, p. 445.(46)
Op. cit., p. 10 e pp. 78-79.
CAP. X.
Le Opere minori di Agostino Trionfo
[pag. 213]
Ad Egidio Romano e Giacomo da Viterbo seguì in ordine di tempo Agostino Trionfo. Oltre la "Summa de Potestate Ecclesiastica" a lui si devono ascrivere alcuni trattati minori non tutti ancora stampati. Il Gandolfi gli attribuisce, come abbiamo veduto (1), quattro operette inedite:1.° Contra Divinatores et Somniatores.
2.° Super Facto Templariorum.
3.° De Potestate S. Collegii mortuo Papa.
4.° De Potestate Praelatorum.
Giuseppe Lanteri, altro suo biografo, ne aggiunge altre due:
5.° De Sacerdotio et regno ac de donatione Constantini.
6.° De Ortu Romani Imperii (2).
Le prime quattro furono riportate da Biccardo Scholz fra i testi del suo classico lavoro sulla pubblicistica del tempo di Filippo il Bello [pag. 214] e di Ludovico il Bavaro. Le ultime due sono invece ancora completamente sconosciute. Inoltre il Finke inserì nelle Fonti per la storia di Bonifazio VIII un'operetta attribuita ad Agostino Trionfo, di carattere polemico, scritta per ribattere le calunnie che gli avversari di papa Gaetani diffondevano, dopo la sua morte, nel mondo cristiano. Con la scorta dello Scholz, sottile indagatore del pensiero politico medioevale, approfittando delle Preziose notizie e del commento che egli premette ai testi, esamineremo queste opere minori dello scrittore agostiniano.
Tractatus contra articulos ad diffamandum sanctissimum patrem Bonifacium papam sanctae memoriae et de commendacione ejusdem
(3).E' contenuto nel codice 4046 della Nazionale di Parigi, dalla carta 19.a alla 28.a. L'operetta fu scritta probabilmente durante i primi anni del pontificato di Clemente V, quando già questo pontefice, dopo aver pellegrinato quattro anni per il mezzodì della Francia, si era fermato ad Avignone nel 1309. Lo Scholz ottimo giudice, attribuisce decisamente questo breve [pag. 215] lavoro al nostro autore (4). Agostino Trionfo si rivela un abile agente e un portavoce del partito Bonifaciano. Egli intende non soltanto comporre un memoriale in difesa della condotta del Gaetani, ma anche d'indicare ai superstiti seguaci del fiero pontefice, la via che li deve condurre al successo nella lotta intrapresa contro la politica della corte papale troppo ligia ai disegni e alle ambizioni di Filippo il Bello. Il trattatello è dedicato ad un cardinale di curia, cui si rivolge l'autore nella chiusa con parole di lode: "Vobis specialiter convenit propter Bonifacii memoriam quae in omnibus aliis fuit perdita, solum in vobis fuit servata". Il Finke (5) ha creduto di potere, identificare questo personaggio importante con il nipote di Bonifazio, il Card. Francesco Gaetani, colto porporato, devoto alla memoria dello zio. Le accuse contro il papa così atrocemente insultato in Anagni, messe fuori all'inizio del suo pontificato, aggravate durante la lotta contro i Colonna e gli Spirituali, furono ripetute nella lunga contesa che ebbe con la corte di Francia. A i 30 giugno 1303, in un'assemblea presieduta dal Re, erano risuonate più che mai violenti le voci contro Bonifazio VIII. Ventinove capi di accusa accumularono su di un uomo tutti i vizi e i delitti di quell'età avvilita. Le calunnie più triviali, [pag. 216] si scagliarono contro il pontefice; alcune come quelle che il papa non credesse all'immortalità dell'anima, alla transustanzazione, che avesse un demonio in casa, sommamente ridicole. Si chiese la convocazione di un concilio ecumenico perchè motivi di coscienza spingevano il Re a quanto egli assicurava, a chiedere alla Cristianità un rimedio alle sventure che i vizi di Bonifazio attiravano sulla Chiesa. I prelati che assistevano alla riunione, lungi dal protestare, aderirono incondizionatamente alla convocazione del concilio, perchè in tal modo si dava l'occasione al vicario di Cristo di provare pubblicamente la sua innocenza. Degni cortigiani di quel monarca simulatore, che affermava che avrebbe volentieri coperto col suo mantello le nudità del Santo Padre (6). I decreti dell'assemblea furono letti al popolo: Commissari regi si sparsero per le provincie ed ottennero ben settecento adesioni dai capitoli, dai monasteri, dalle città, dalle provincie, molte date spontaneamente, non poche strappate a forza. L'Università di Parigi aderì con entusiasmo. Il Re scrisse allora ai principi, ai vescovi, ai cardinali perchè convocassero il concilio che doveva dare la pace alla Cristianità. La notizia di quanto era avvenuto in Francia pervenne a Bonifazio in Anagni, sua patria, dove erasi recato nei caldi della stagione. Subito, in pieno concistoro, [pag. 217] il 15 agosto si purgò per sacramento dalle imputazioni a lui mosse e pubblicò una bolla che testimoniava il suo nobile carattere. Non degli attacchi alla sua persona, ma degli oltraggi alla sua dignità egli si mostra preoccupato. Una sola frase mostra che è consapevole delle calunnie ignominiose che gli furono lanciate. "Noi conosciamo, egli esclama, i delitti che ci sono imputati, ma sono accuse lanciate da uomini che immergevano la lingua nel fango, mentre tenevano gli occhi rivolti al cielo" (7). Neanche la morte del Gaetani fece tacere le malevoli voci. E più volte il Nogaret e lo stesso Filippo chiesero a Clemente V l'aperta condanna della memoria di Bonifazio VIII. L'operetta del Trionfo è divisa in tre parti. Nella prima (carte 18-22) vengono riferite e confutate le principali accuse. Di alcune frasi imputate al papa che potrebbero aver sentore di eresia, l'autore spiega il vero senso in modo da renderle perfettamente ortodosse, di altre, come in genere degli addebiti più gravi, mostra l'evidente esagerazione e falsificazione dei nemici del pontefice. Contro gli avversari di Bonifazio uomini carentes sanctitate, auctoritate et ventate sacrae scripturae (cioè non maestri in sacra pagina) e quindi immeritevoli di ogni fiducia, Agostino si mostra in tutto il trattato particolarmente severo, specialmente [pag. 218] nella seconda parte (carte 22-24) quando rievoca diffusamente il dramma di Anagni. Dopo gli studi del Renan (8), del Finke, e recentemente dell'on. Pietro Fedele (9), siamo in grado di ricostruire gli avvenimenti che si succedettero a dì 7 settembre 1303 nella piccola città del Lazio. Il vecchio pontefice visse ore veramente tragiche, e seppe mostrarsi in tutto consapevole della dignità altissima di cui era investito. Disposto a morire, ma non a cedere i suoi diritti, egli ripeteva ai suoi nemici: "Ecco il capo, ecco il collo". Sciarra Colonna l'avrebbe ucciso se non si fosse opposto il Nogaret, al quale premeva troppo trascinare in prigione il papa in Francia, perchè servisse ai disegni di Filippo il Bello. Le cose però non dovettero andare in modo così tranquillo come vorrebbe far credere l'astuto ministro del Re francese nelle varie apologie della sua condotta in Anagni, pubblicate dopo la morte di Bonifazio. Un testimonio oculare, il card. Nicola Boccasini che non aveva voluto abbandonare il pontefice nel pericolo, salito poi sulla cattedra di S. Pietro col nome di Benedetto XI, nella bolla Flagitiosum scelus, pubblicata per condannare gli autori del triste avvenimento, asserisce [pag. 219] che "manus in eum iniecerunt impias, protervas erexerunt cervices, ac blasphemiarum voces funestas ignominiose jactarunt". Ricordando con dolore questi fatti, Agostino Trionfo si lamenta che gli autori del sacrilego attentato siano rimaiti impuniti, e che proprio nel paese del nemico abbia il papa trasferito la sua residenza. Da questa condotta di Clemente V grandi mali verranno alla comunità cristiana, perchè dalla fortuna dei persecutori del pontefice i malvagi trarranno motivo d'imitarli nelle loro gesta e di opprimere i pastori del gregge di Cristo. Il Trionfo non si oppone alla canonizzazione di Celestino V, sollecitata dagli Spirituali e dalla corte di Francia, ma dice che più del suo predecessore è Bonifazio VIII, morto come un martire al servizio della Chiesa, degno degli onori dell'altare. La terza parte, la più importante perchè contiene un'amara e violenta satira contro Clemente V e i cardinali di Francia, è priva di tre capitoli, l'ottavo, il nono e il decimo, i cui titoli sono riportati in un indice posto nella carta 24a. Iddio, osserva Agostino, affida talvolta ad un vicario indegno il governo della comunità cristiana, per provare e punire il suo popolo. Egli permise che fosse insultato Bonifazio VIII, suo fedele ministro, per dare ai buoni ed ai cattivi il monito di umiliarsi a Lui. Anche ora che sulla cattedra di Pietro è asceso un Pastore noncurante dell'onore del proprio ufficio[pag. 220] e della giusta vendetta contro i carnefici di papa Gaetani, la Provvidenza agisce secondo alti disegni. Permettendo il male, il Signore ha voluto richiamare all'idea del dovere i cardinali d'Italia che nel conclave decisero col loro voto dell'elezione del candidato francese, sperando di farne un avversario delle ambizioni di Filippo il Bello. Inoltre tutti i fedeli hanno avuto la prova delle virtù del grande pontefice oltraggiato, perchè "non poterat Bonifacii virtus et excellentia cagnosci, nisi per vitium et defectum alterius". I costumi dell'alto clero sono noti ad Agostino Trionfo che enumera i difetti dei componenti il Sacro Collegio. Richiamandosi alla fragilità umana, egli esorta i prelati e il papa a stabilire la loro residenza fuori della patria, per evitare le pretese e le ingerenze sul ministero ecclesiastico dei loro parenti, amici e concittadini. Le ragioni addotte per non riportare la curia pontificia a Roma sono analizzate e confutate. Nondimeno ai cardinali malcontenti della sede di Avignone, è rivolta l'esortazione di non chiedere licenza di ritornare ad titulum cardinalatus, almeno finchè la domanda non sia giustificata da qualche grave ragione, quale potrebbe essere il numero sufficiente dei cardinali che rimarrebbero in corte, la residenza non ordinata e instabile della curia, la necessità di provvedere al governo della propria chiesa o al proprio sostentamento e a quello della famiglia, il pericolo personale che potrebbe sorgere [pag. 221] dalla permanenza nella curia pontificia. Nelle circostanze attuali, finchè il papa risiederà nella terra di Francia, è doveroso che ciascun cardinale dimori presso di lui, menando una vita austera e silenziosa, "cum humilitate, pocius tacendo quam loquendo". Lo scritto di Agostino Trionfo ha grandissimo valore come espressione del profondo e generale disgusto prodotto in Italia dal trasferimento della sede pontificia. Evidentemente i cardinali italiani tramavano di abbandonare Clemente V ed Avignone per ritornare in patria. Il nostro Scrittore tenta di dissuaderli da questo disegno. Egli consiglia di rimanere in curia per lottare contro la parte francese e preparare il movimento di ritorno a Roma, residenza naturale del Successore di Pietro.
Brevis tractatus super facto Templariorum.
E' contenuto nello stesso codice della Nazionale di Parigi (carte 28-30), dopo l'operetta esaminata, e prima di due altri trattatelli di Agostino, il De duplici potestate praelatorum et laicorum (cc. 30-32) e il De potestate Collegii mortuo papa (cc. 32-34) (10). Il nome dell'autore [pag. 222] non è menzionato nel manoscritto parigino, ma noi abbiamo già veduto che un lavoro con questo titolo è attribuito al monaco agostiniano dai suoi biografi, e inoltre il codice 939 della Vaticana lo riporta indicandolo come opera del Trionfo. Il 13 ottobre 1307 tutti i cavalieri dell'antico e glorioso Ordine del Tempio che si trovavano sul suolo francese furono arrestati e posti in carcere dai funzionari dello Stato. Approfittando delle voci pubbliche che accusavano di grave immoralità questi religiosi soldati, Filippo il Bello, per impossessarsi delle loro immense ricchezze, chiese a Clemente V l'abolizione dell'Ordine. Lungamente si oppose il papa, tergiversando, alle richieste del potente monarca, ma infine fu costretto a rimettere la questione al 15° concilio ecumenico convocato negli anni 1311-1312 a Vienna nel Delfinato. Il 22 marzo 1312 comparve la bolla Pax in excelso che decretava lo scioglimento dell'Ordine come inutile e pericoloso. Molti cavalieri erano già periti fra le torture dei tribunali francesi; Giacomo Molay, ultimo gran maestro, fu bruciato vivo il 13 marzo 1313. Subito dopo l'imprigionamento dei cavalieri, il Re aveva interpellato la facoltà teologica di [pag. 223] Parigi per domandare un parere sulla legalità dei provvedimenti presi. Con sua grande meraviglia i professori dell'Università, già così ligi alla sua politica durante la lotta contro Bonifazio VIII, non dettero la risposta d'incondizionata approvazione che egli desiderava (11). Fra i maestri interpellati alcuni appartenevano, come Alessandro da S. Elpidio, all'Ordine degli Eremetani di S. Agostino (12). Forse il Trionfo compose in questa occasione il suo trattato per meglio dilucidare la risposta che il collegio accademico aveva dato a Filippo il Bello in quella circostanza. Egli riassume la sua tesi in poche parole: regibus et principibus saecularibus non licet hereticos capere sine requisitione ecclesiae. E adduce in prova passi del vecchio e del nuovo Testamento e i soliti argomenti filosofici della superiorità dell'anima sul corpo e quindi del potere spirituale su quello temporale. La questione, come si vede, è generica e abbraccia tutti gli eretici e non soltanto i Templari che in qualità di appartenenti ad un ordine monastico non era dubbio che avessero il diritto di essere giudicati dal tribunale ecclesiastico (13). [pag. 224] Nondimeno in un caso egli concede alla potestà laica d'intervenire per reprimere l'eresia, quando vi fosse pericolo che i nemici della fede, forti del loro numero, mettessero in pericolo l'ortodossia della nazione, e mancasse il tempo di consultare tempestivamente l'autorità ecclesiastica (14). Ma i sovrani moderni, conchiude argutamente Agostino alludendo all'imprigionamento improvviso e non autorizzato dei Templari, rassomigliano a quel medico che prima ordinò la medicina all'infermo e poi consultò i libri per sapere se la cura era giusta. E tornato presso il paziente si accorse che costui era morto.
TRACTATUS BREVIS DE DUPLICE POTESTATE PRELATORUM ET LAICORUM QUALITER SE HABENT
[pag. 225]
Menzionata negli antichi cataloghi delle opere del Trionfo, questa non lunga dissertazione sulla natura dei due poteri, è riportata anonima nel codice parigino (cc. 30-32). Sebbene non vi sia indicata la data di composizione, la possiamo con ogni probabilità assegnare a quel periodo di tempo che Agostino, dopo il 1300, trascorse insegnando nell'Università della capitale di Francia. Anche gli altri scritti esaminati appatengono a questi fecondi anni della vita del nostro scrittore. L'esordio dei trattato ha un'intonazione alquanto amara. Non mancano ai nostri giorni, dice l'autore, coloro che avendo dimenticato il detto aristotelico "amicus Plato, sed magiis amica veritas", osano negare, per non dispiacere agli uomini alcune verità per sé evidenti. Fra queste è da annoverarsi la dottrina della dipendenza e dell'origine immediata della potestà spirituale. E non soltanto il potere concesso ai principi secolari, ma anche l'autorità di cui sono investiti i dignitari della Chiesa deriva da Dio per mezzo del pontefice. Come Egidio nel De Renuntiatione Papae, così Agostino si diffonde in questa operetta a definire la duplice "potestas ordinis et jursdictionis" dei Prelati. [pag. 226] La prima, che importa la facoltà di offrire il sacrifizio e amministrare i sacramenti, fu concessa da Cristo a tutti gli apostoli e quindi si trasmette in modo eguale ai vescovi e al papa, loro successori, ed è inalienabile. La seconda, che si può anche chiamare la potestas subditos regendi, fu data soltanto a Pietro in tutta la pienezza ed universalità e conseguentemente ai Romani Pontefici, e subordinatamente, cioè mediante Petro et mediante papa agli altri apostoli e ai pastori che sono eredi spirituali del loro potere. Che poi la suprema autorità eeclesiastica abbia ricevuto da Dio il dominio perfetto delle cose temporali per comunicarlo ai laici, con il diritto di controllo è l'obbligo di privarne gl'indegni, è provato dall'autore con dimostrazioni assunte da principi di ordine naturale, metafisico, morale e divino. Ma tutti gli argomenti che egli adduce possiamo ridurli a quell'unico su cui s'imperniò la letteratura canonistica e politica del suo tempo: la missione ultraterrena della Chiesa e la superiorità dello spirito sulla materia.
De potestate Collegii mortuo papa
E' la più breve delle opere minori del nostro scrittore. Occupa appena una carta, la trentaduesima, del codice parigino. Tratta della questione importante dei poteri del sacro Collegio durante la vacanza [pag. 227] della S. Sede, e sebbene nel scritto da cui la trascrisse lo Scholz sia anonima, tuttavia è nominata negli antichi cataloghi tra i lavori di Agostino Trionfo. Sui limiti della potestà concessa in tali occasioni ai cardinali, si discuteva da lungo tempo fra i cultori del diritto canonico, e a rendere più fervide le loro polemiche e a provocare severe condanne da parte dei fedeli pensavano gli stessi porporati coi loro dissensi, gelosie e rivalità. Dopo la morte di Celestino IV avvenuta il 17 o 18 novembre 1241, la S. Sede restò vacante diciannove mesi. Gregorio X fu eletto dopo un interregno di tre anni, Niccolò IV dopo undici mesi, Celestino V dopo due anni e tre mesi. Undici mesi corsero fra la morte di Benedetto XI e l'elezione di Clemente V, due anni furono appena sufficienti al sacro collegio per innalzare Giovanni XXII al trono pontificio. Forse in una di queste due ultime vacanze della S. Sede pubblicò AgostinoTrionfo il suo trattato. Partendo dal principio dell'immortalità della Chiesa e del papato, Egidio aveva sostenuto nel De Renuntiatione papae (15) la trasmissione dell'autorità di giurisdizione ai cardinali, in caso di decesso o di abdicazione del Sommo Pontefice. Anche per il Trionfo, come del resto per tutti i teologi cattolici, la Chiesa, essendo il Corpus mysticum [pag. 228] Christi, è un organismo soprannaturale che non può essere soggetto alla morte perchè sempre vivrà il suo Sposo divino, e non perderà mai quella massa di diritti e di poteri che le sono connaturali avendoli ricevuti dalla divinità, anche se dovesse rimaner priva, per un tempo più o meno lungo, del suo capo terreno, il vescovo di Roma, vicario di Cristo. In tal caso depositario della potestas Jurisdictionis, durante il periodo di vacanza, è il Sacro Collegio cui spetta, oltre l'elezione del novello pontefice provvedere ad un regolare governo della Chiesa, salvaguardare la comunità dei fedeli dalla propaganda degli errori contro la fede, amministrare e tutelare i beni materiali del clero. Ma non si trasmette ai cardinali la pienezza dell'autorità. Numerose restrizioni limitano, specialmente nel campo legislativo, la loro potestà di giurisdizione. Così essi non possono, abrogare gli statuti dal papa stabiliti nè crearne dei nuovi a proprio favore, nè in genere compiere quegli atti di governo od arrogarsi quei diritti che personalmente furono riservati al Successore di Pietro. Queste limitazioni si basano sulle Costituzioni emanate da Gregorio X nel concilio di Lione del 1273 (16) e ribadite in quello di Vienna da Clemente V (17). Lo scopo dei Sommi Pontefici nel pubblicare [pag. 229] queste ordinanze era d'impedire gl'interregni prolungati governo della Chiesa così dannosi alla disciplina del clero e dei fedeli. Ma i cardinali non accolsero docilmente queste disposizione. E dopo la morte di Benedetto XI e Clemente V due lunghe vacanze ebbe a suffrire la S. Sede, l'una di undici mesi e l'altra di oltre due anni.
Tractatus contra divinatores et somniatores.
Menzionata dai biografi di Agostino, conservata nel codice Vat. lat. 939, nelle carte 31v-46v, questa breve dissertazione, importante documento della potenza sociale raggiunta dagli Spirituali nel secolo XIV, fu recentemente pubblicata e commentata dallo Scholz (18). Quando il Trionfo componeva i suoi trattati ecclesiastico-politici, il mondo cristiano che oltre un secolo prima era stato sospinto dalle predizioni dell'abate Gioacchino di Flora nei terrori dell'Apocalisse, subiva ancora il fascino della predicazione di Francesco di Assisi che era scesa su di esso come un largo raggio di sole e come la squisita grazia di un mattino di aprile. Il movimento di rinascita spirituale [pag. 230] iniziatosi improvvisamente nelle campagne dell'alta Umbria, si era in breve tempo propagato in tutta l'Italia, mantenuto vivo per lunghi decenni dai figli del grande apostolo che si erano assunto il compito di attivare il lievito dell'amore nelle coscienze e di destare nelle anime le forti passioni religiose. Ma S. Francesco tutto pervaso dall'eroico desiderio di una vita perfetta, non aveva preveduto il duro conflitto che, subito dopo la sua morte, sarebbe sorto dell'Ordine da lui fondato tra i due partiti dei moderati e dei rigidi interpreti della sua regola. Pensò forse a delle apostasie, a una riconciliazione di molti seguaci colla vita del secolo, ma che un grande numero, forse la parte più pura dei suoi discepoli, sarebbe arrivata allo scisma e alla ribellione alle supreme autorità della Chiesa, questo il mistico e forte figlio di Assisi non poteva immaginarlo. Sino al 1312 la questione della disciplina del grande istituto monastico, sembrava in apparenza che fosse l'oggetto della lotta fra le diverse tendenze dell'Ordine. La condotta della S. Sede verso i pii ed esaltati monaci, chiamati dal popolino Fraticelli, era stata dapprima prudentemente benevola. Essa aveva saputo valutare il fermento d'idee, la ricca fioritura di misticismo che gli Spirituali suscitavano nella comunità dei fedeli. Anche quando l'Università di Parigi custode, secondo la frase del Romanzo della Rosa, della chiave della cristianità, insorse unanime nel 1254 [pag. 231] contro l'introductorium ad Evangelium aeternum di frate Gerardo da S. Donnino, diseepolo di Giovanni da Parma, capo della corrente spiritualistica francescana, il tribunale teologico, pur condannando il libro radicalmente sovvertitore dell'ortodossia, cattolica tenne un contegno moderato. Negli anni che Egidio Romano aveva trascorso a Parigi giovinetto, per addottorarsi nelle discipline filosofiche e teologiche, durava ancora l'eco dell'ardenti polemiche dell'Università contro gli Ioachimiti e gli Spirituali, invelenito dal desiderio dei maestri secolari di compromettere gli ordini mendicandi per sbarazzarsi di pericolosi competitori nella conquista delle cattedre della celebre scuola. Ma alla mente equilibrata e sillogistica del monaco agostiniano non dovette riuscire simpatica quella lunga schiera di mistici che vivevano nell'estasi e nel sogno, aspettando l'era dell'Evanglo Eterno di Gioacchino da Flora, il rinnovamento sociale e religioso dell'umanità. Educato da S. Tommaso all'assimilazione del genio realistico della filosofia d'Aristotele, ravvisò subito il pericolo di quell'idealismo eccessivo e tenne lontano l'Ordine cui apparteneva e la scuola che aveva fondato dal movimento di acceso ascetismo. Negli anni che precedettero immediatamente il concilio di Vienna, e specialmente dal 1309 in poi, ci fu un serio tentativo nella corte di Avignone per creare un ambiente di simpatia agli Spirituali e riabilitare la memoria e le opere [pag. 232] di Pier Giovanni Oliva. Lavorarono concordemente a questo scopo Arnaldo da Villanova, Raimondo Lullo, il Nogaret e il partito cardinalizio dei Colonna. Una commissione fu incaricata di esaminare le opere dell'Oliva: fu allora che Ubertino da Casale pubblicò Arbor vitae crucifixae. Clemente V desiderava di aver notizie predise sul valore e sulla portata del movimento spiritualista. Agostino Trionfo colse l'occasione e scrisse l'acre operetta polemica (19). Vi è una lunga schiera di esaltati e di psudoprofeti, dice il monaco agostiniano, ai quali non si deve prestar fede. Questi visionari spacciano per moneta sonante le loro menzogne, simulando la pietà, abusando della Sacra Scrittura come testimone delle loro profezie. Sono così arroganti che osano suggerire, senza l'autorizzazione della potestà ecclesiastica, una norma evangelica di vita non soltanto ai semplici fedeli, ma anche ai principi ed ai sovrani (20). Questi fantastici spacciatori di vani sogni, sono facilmente riconoscibili [pag. 233] dall'irrequietezza della loro vita. Trascorrono infatti i loro giorni peregrinando di luogo in luogo, ora ammogliati, ora celibi, ora secolari, ora monaci in cerca sempre di proseliti (21). L'allusione a Raimondo Lullo e Arnaldo da Villanova è qui evidente. Il primo, cavaliere e gran siniscalco di Giacomo d'Aragona, a trentadue anni, impprovvisatosi missionario e riformatore della Chiesa, abbandonò moglie, figli, ricchezze per assumere il saio di frate minore, e studiò l'arabo e le lingue orientali per diffondere il vangelo nei paesi infedeli. Passato a Tunisi, vi sfuggì a stento la morte: si rifugiò in seguito a Genova, a Napoli, dove Arnaldo da Villanova lo iniziò all'alchimia, in Francia, scrivendo, predicando, soffrendo dispute, prigionie, deriso come un folle, esaltato come un santo, glorificato dall'Università di Parigi con l'adozione della sua celebre Ars Magna. Il secondo, strana figura di scienziato e di avventuriero, nato in Catalogna, medico di Pietro III d'Aragona e di Bonifazio VII, si era rifugiato presso Federico Re di Sicilia per sfuggire alle censure dei tribunali ecclesiastici che avevano proibito i suoi libri. [pag. 234] Dedito all'alchimia e alla ricerca della pietra filosofale, era amico e sostenitore degli Spirituali. In un'altra pagina del trattato, Agostino Trionfo lancia nuovi strali alle dottrine di Raimondo Lullo, specialmente contro il principio filosofico di questo scrittore, che si deve anteporre la dimostrazione alla fede, essendo quest'ultima sovrasensibile ma non indimostrabile (22). Nè risparmia le critiche alle teorie di Pier Giovanni Oliva, e non dubita di chiamarle eretiche, lamentandosi che, sebbene condannate dai confratelli del monaco francese, trovino ancora difensori e propagandisti (23). In seguito Agostino, mettendo nello stesso livello superstizione e spiritualismo, tratta della negromanzia e divinazione, della magia che è proibita anche se praticata [pag. 235] dai medici in soccorso della loro arte, dell'interpretazione dei sogni che non è ritenuta sicura. Ma alle previsioni astrologiche, all'osservazione del tempo e del raffreddamento degli animali nelle bufere atmosferiche, egli presta una certa fede, purché si escluda il fatalismo e il determinismo della volontà sotto l'influsso delle stelle. Nella Summa de Poteste ecclesiastica chiamerà non soltanto cattivo professionista, ma moralmente colpevole quel medico che trascurasse, nella cura dei suoi ammalati, l'osservanza di certi usi superstiziosi (24). Suo malgrado, il nostro autore non è del tutto immune dall'idee superstiziose del tempo, come non lo furono personaggi più notevoli e spiriti di lui più forti.
NOTE
(1)
Cfr. p. 60 di questo volume.(2)
IOSEPHUS LANTERI, Postrema saecula sex Religionis Augustinianae. Tolentini, typ. Guidoni, 1850, vol. I, pag. 77.(3)
Pubblicato dal FINKE, Aus den Tagen Bonifaz VIII, II, Quellen, LXIX e sgg.(4)
R. SCHOLZ, Op. cit., pag. l75.(5)
Op. cit., pag. XCVIII.(6)
ROCQUAIN, Op. cit., pag. 272.(7)
ROCQUAIN, Op. cit., pag. 280.(8)
E. RENAN, Etudes sur la politique religieuse da règne de Philippe le Bel. Paris 1899.(9)
PIETRO FEDELE, Per la storia dell'attentato di Anagni, in Bollettino dell'Istituto storico italiano. Vol. 41, pagg. 195 segg.(10)
Segue nel codice uno scritto anonimo intitolato De origine ac translatione ac statu romani imperii (carte 34-36), diretto contro i principi tedeschi che negavano la subordinazione dell'autorità temporale a quella spirituale. Secondo lo Scholz, anche di questa breve dissertazione è probabilmente autore Agostino Trionfo.(11)
Cfr. DENIFLE, II, n. 664, pag. 125.(12)
Idem, ibid.(13)
SCHOLZ, Die Publizistik, ecc., pag. 510: Verum quia predicti Templarii religiosi dicebantur post eorum capcionem et eorum confessionem dubitat predictus rex francorum, an predictos et universaliter hereticos ipse posset proprio iudicio (eos) capere et condemnare sine requisicione ecclesiae. Et quia omnes articuli, de quibus dubitat ipse rex super hac materia, ex isto primo pendent, ideo volumus ostendere, quod non solum Templarios, qui erant persone immediate subiecte ecclesie, verum etiam quoscunque alios hereticos nec rex nec aliquis secularis princeps habet auctoritatem capiendi vel judicandi sine ecclesie requisitione.(14)
Ibid., pag. 515: Ad ultimum dicimus ergo, quod si reges et principes viderent sic hereticos pullulare in eorum regno, ut merito possent timere, quod eorum subditi fideles inficerentur et corriperentur per eos, et cum hoc commode non possent ita cito consulere ecclesiam, ut tali periculo subveniret, credimus, quod in tali casu regibus et principibus licitum esset dictos hereticos capere, ita tamen quod semper haberent propositum eos ecclesie reddere et eos sub potestate ecclesie tradere ad requisicionem eius.(15)
Cfr. pagg. 26-27 e pag. 59.(16)
Cap. un. Tit. III, Lib. V in VI.(17)
Cap. 3. Tit. VI, Lib, I in VI.(18)
Unbekante Kirchenpolitische Streitschriften aus der Zeit Ludwig des Bayern (1327-1354). Rom. Verlag von Loescher, pagg. 191sgg. (commento) e pagg. 481sgg. (testo).(19)
SCHOLZ, Op. cit., pag. 482: Ut tamen vestre sanctitati faciliter occurrat quod scire desiderat, prelibatum tractatum ultro per capitula distinguo.(20)
Id. Ibid., pag. 484: Sunt aliqui sic supersticiosi ut dicant se velle tradere motivum explicare viam quibusdam regibus et principibus, secundum que vivere debeant iuxta regulam evangelii; sed quod hoc non liceat facere alicui sine speciali mandato et requisicione ecclesiae racionibus et auctoritatibus comprobatur. Igitur heretici non immerito isti possunt appellari.(21)
Id. Ibid., pag. 481: Si igitur videmus aliquos mobiles et fluctuantes in statu eorum, ut nunc sint uxorati, nunc continentes, nunc seculares, nunc religiosi, nunc ultra mare, nunc citra, nunc mundum spernentes, nunc apparentes, signum est visiones factas talibus non esse divinas revelationes, sed dyaboli illusiones.(22)
Ibid., pag. 484.(23)
Ibid., pag. 485: Quia doctrinam cujusdam fratris minoris Petri Iohannis interim extollant et commendant, ut praeter illam religionem christianam et regulam evangelicam dicant non posse haberi vel servari. Et ipsos fratres minores sacrae fidei professores eo quod doctrinam illius fratris tanquam superstitiosam et erroneam extirpaverunt, petant condemnari et annullari. Cum tamen clare clarius apparet doctrinam illius fratris vel sapere confusionem paganorum vel supersticionem hereticorum vel languorem schismaticorum vel cecitatem Iudeorum, sicut liquide apparet per XII articulos qui in dictis eius reperiuntur. Nel Chartularium Univ. Paris., II, pagg. 238-239, n. 790 è riportata la nota dei dodici articoli incriminati di Pier Giovanni Oliva e la relazione fatta di essi a Giovanni XXII nel 1318 dai professori di Parigi.(24)
Summa de Potestate Ecclesiastica. Romae, apud Vincentium Accoltum, 1582, p. 542. Respondeo dicendum, quod medicos peccare dantes medicinam non in debitis signis astrorum dupliciter potest intelligi. Primo peccato artis ignorantiae per eorum negligentiam. Secundo peccato culpae conscientiae per eorum malitiam.
CAP. XI
LA "SUMMA DE POTESTATE ECCLESIASTICA"
[Pag. 236]
Nell'agosto del 1313, dopo aver tentato di rialzare le sorti del sacro romano impero cadute con la dinastia degli Hohenstaufen, Arrigo VII di Lussemburgo moriva a Buonconvento sulla via di Roma, portando nel sepolcro un sogno di pace universale. Spezzata ancora una volta la concordia tra il pontefice di Roma e l'imperatore, da cui nel pensiero di Dante doveva scaturire la felicità del genere umano, si riapriva, per avviarsi all'epilogo, la lotta fra le due grandi istituzioni politiche del Medio Evo. Ludovico IV, detto il Bavaro, e Giovanni XXII, secondarie figure di politici, furono i maggiori protagonisti di quest'ultima fase del grandioso contrasto. Nel 1324 Marsilio da Padova, entrato in lizza in favore delle antiche pretese di superiorità politica del potere civile su quello religioso, pubblicava il Defensor Pacis. Ma subito, o poco dopo, il partito curialista gli opponeva un trattato non meno famoso, la Summa de potestate ecclesiastica di Agostino Trionfo. Nell'edizione di Roma del 1582 sotto il nome dello scrittore e il titolo del lavoro, si legge [pag. 237] che l'opera fu scritta nell'anno 1320. E dopo alcune pagine, in un compendium vitae auctoris che segue la Vita premessa al trattato, sono citati alcuni storiografi che assegnano allo stesso anno la redazione del libro del Trionfo (1). Ma nessuno di questi storici é vicino all'epoca del monaco agostiniano, nè è detto su quali basi è fondata l'asserzione. Nondimeno noi crediamo che la data debba essere soltanto di qualche anno spostata. Abbiamo assegnato le operette di Agostino a quel periodo della sua vita che egli trascorse dopo il 1300 a Parigi, insegnando nella facoltà teologica. La summa de potestate ecclesiastica ci rivela la maturità del suo ingegno, e d'altra parte essa fu scritta con uno scopo particolare, difendere il primato politico dei papi in un momento di minaccia da parte dell'autorità secolare. Ma soltanto dopo la sconfitta a Mühldorf di Federico duca d'Austria nel 1322, e la consolidazione del potere di Ludovico il Bavaro, [pag. 238] Giovanni XXII aprì le ostilità contro l'imperatore. Nel fervore della lotta, in occasione della pubblicazione del "Defensor Pacis", dovette il Trionfo comporre il suo trattato. Nel prologo infatti, alludendo evidentemente alla divulgazione di opere di scrittori avversari, egli si lamenta dell'ignoranza e, peggio ancora, dell'ostilità che molti dimostrano contro la potestà spirituale, e l'attribuisce alla superbia e ad una curiosa scientia avida di novità, che spinge questi nemici del sacerdozio a combattere sistematicamente i principi su cui poggia, per divina istituzione, l'ordinamento della società. Nel principio del 1326 la Summa di Agostino era stata compiuta e doveva probabilmente circolare nel mondo cattolico con grande soddisfazione della corte pontificia. Perchè proprio nel gennaio di quell'anno Giovanni XXII ordinava al suo tesoriere di provvedere generosamente il Trionfo di moneta perchè potesse attendere con tutta tranquillità ai suoi studi. Noi vediamo nel gesto del papa l'intenzione di ricompensare il nostro autore della splendida difesa che dell'idea teocratica aveva scritto e diffuso. Due anni dopo il monaco eremitano scendeva glorioso nella tomba. [pag. 239] Il trattato di Agostino Trionfo si avvicina nella forma alle grandi Somme teologiche del Medio Evo e soprattutto a quella di Tommaso di Aquino. Nelle prime due parti dell'opera, delle quali soltanto ci occuperemo, l'autore tratta della natura e dell'origine dell'autorità pontificia (2), dei limiti della sua giurisdizione e delle sue relazioni colla potestà laica (3). Nella terza parte è ampiamente discussa la missione del papato in rapporto alla santificazione degli uomini (4). Il Trionfo si ripromette, con una libera discussione intorno alla somma dei poteri affidati al sacerdozio, di rimuovere l'ignoranza, schiarire la verità, lumeggiare la dottrina di Cristo (5). Egli afferma, ripetendo quanto già scrisse nei trattati minori, che omnis potestas est a Deo (6). Ma mentre quella del Papa ha un'origine immediatamente divina, i vescovi e i prelati sono investiti del loro potere religioso dal sommo pontefice, e i principi secolari soltanto come delegati ed esecutori dell'autorità [pag. 240] ecclesiastica ricevono il dominio sulle cose temporali (7). La potestà del papa è dunque spirituale e civile. Nè vale l'asserire che le due auctoritates avendo una diversa finalità ed essendo quindi fra loro indipendenti non possono risiedere in una stessa persona, perchè ambedue i poteri non furono da Cristo conferiti nello stesso modo al vescovo di Roma, ma la giurisdizione spirituale secundum immediatam institutionem et executionem, la temporale secundum institutionem et auctoritatem, non tamen secundum immediatam executionem (8). Quest'ultima, l'executio, cioè l'uso della spada secolare, come aveva detto S. Bernardo, fu concessa ai sovrani della terra. Agostino Trionfo trae dalle sue teorie numerosi corollari. Quando i sommi pontefici hanno ceduto domini temporali alla autorità laica, non ubbidivano ad esigenze di reintegrazione di un ordine di giustizia da [pag. 241] loro turbato, ma cedevano al desiderio di mantenere fra i popoli la pace. Invece una restituzione del mal tolto, un gesto certamente nobile ma che non esorbitava dalla portata e dal carattere di una dovuta riparazione, furono le donazioni territoriali fatte dagli imperatori alla S. Sede (9). Il papa può a suo arbitrio restringere od ampliare i poteri concessi ad ministerium, cioè in delegazione ai principi secolari, e imporre che secondo la sua volontà (ad imperium illius) si servano del gladium materiale a loro affidato. Anche le leggi emanate dalla potestà terrena hanno valore in quanto sono confermate dal delegante (10), cioè dal successore di Pietro che può anche correggerle, mutarle, abrogarle (11). [pag. 242] Investito di questa facoltà il vescovo di Roma ha diritto a ricevere dai sovrani il giuramento di vassallaggio (12), e può, per una giusta causa anche non religiosa, deporre i monarchi (13) ed innalzare ai fastigi del trono anche imperiale, se lo crede opportuno, qualsiasi altra persona da lui stimata degna (14). Giudicando inoltre che missione del papato sia concedere ai fedeli un'imparziale giustizia e protezione, Agostino rende a tutti accessibile l'appello dall'autorità civile alla suprema religiosa (15), senza avvertire che il diritto di ricorso tanto caldeggiato da Gregorio VII ed Innocenzo III, più che in un beneficio ai deboli e agli oppressi si risolveva spesso in un appoggio ai potenti, i quali appellandosi alla S. Sede avevano il mezzo di sospendere gli effetti delle sentenze e spesso di sfuggire alle censure dei superiori ecclesiastici e civili. Al papa fu trasmessa, per il bene della Comunità cristiana, la stessa potestas di Cristo, di cui egli è il rappresentante in terra. A questa autorità sono annessi tre doveri ai quali nessun pontefice può sottrarsi: il debellamento dei [pag. 243] tiranni, il governo regolare dei sudditi, l'ammonizione ed esortazione all'osservanza dei precetti divini (16). Involontariamente il Trionfo in questa enumerazione delle finalità cui è diretta l'istituzione del potere spirituale, concede alle cose temporali il primo posto nella giurisdizione pontificia. In seguito, ispirandosi al "De Renunciatione papae" di Egidio e al proprio trattato "De potestate Collegii mortuo papa", il nostro autore affronta nuovamente la questione della validità dell'abdicazione al soglio papale e dell'estensione dei poteri del Sacro Collegio durante le vacanze della S. Sede, senza però aggiungere nulla di nuovo a quanto era già stato detto. L'elezione del Sommo Pontefice è affidata ai cardinali, come rappresentanti dei chierici romani perchè oltre che giudici e principi di tutto il mondo, sono anche titolari delle Chiese esistenti nella Città eterna, e il papa sebbene sia Pastore di tutta la comunità dei fedeli, è in modo particolare insignito della dignità di vescovo di Roma (17). Vescovi e cardinali, hanno gli uni e gli altri il diritto di fregiarsi del titolo di successori degli apostoli, ma i primi non li rappresentano, come [pag. 244] i secondi, nella loro qualità di assistenti praesentialiter a Cristo o al suo vicario in terra, e perciò non spetta a loro eleggere il Capo supremo della cristianità (18). Una ragione inoltre di opportunità, il desiderio di evitare ritardi e confusioni, decise i legislatori della Chiesa ad affidare a poche persone un mandato così importante (19). Del resto come il capitolo riceve dal papa la potestà di nominare il vescovo (20), così il sacro Collegio dalla stessa sorgente del diritto, cioè dal Sommo Pontefice, deriva il suo potere elettivo (21). Come Egidio, Agostino Trionfo fonda sull'elemento umano, sul consenso dell'eletto e degli elettori, la causa efficiens dell'autorità spirituale. E Dio si serve degli uomini per non privare le creature delle loro operazioni, per non turbare l'ordine dell'universo, cum quaelibet res sit vana et frutra si privetur propria [pag. 245] operatione (22). Non sempre però i disegni della Provvidenza sono assecondati dai cardinali che hanno l'onore di designare la persona che stimano adatta a salire sulla cattedra di Pietro. E non di rado avviene che i loro voti si riversino sul candidato meno degno, con grave scandalo e dolore dei fedeli (23). Ma Dio permette questo male per trarne, secondo i suoi fini sapienti, il vantaggio delle creature e l'incremento della sua gloria. All'impero Agostino Trionfo dedica lunghe pagine. Gli elettori della più alta autorità laica non sono che delegati pontifici (24). La storia è addotta in prova di questa asserzione. Fu Gregorio V il vero fondatore del sacro romano impero, dell'organismo politico-religioso che ebbe tanta importanza nel medioevo. Convocati e interrogati i principi di Germania, il pontefice di Roma concesse a sette di essi, il re di Boemia, il duca di Sassonia, il conte Palatino, il marchese di Brandeburgo, gli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri, la potestà di eleggere l'imperatore (25). L'assunzione di Ottone III, sovrano tedesco, all'antico trono dei Cesari, non fu perciò dovuta al caso, ma ad un disegno [pag. 246] prestabilito dal papa. Il quale oltre che spinto dall'affetto verso quel monarca suo stretto congiunto, era animato da un sentimento di gratitudine verso il popolo germanico liberatore della Chiesa dall'oppressione dei Longobardi (26), e fedelissimo in ogni tempo alle direttive della S. Sede. Ma queste ragioni, per così dire, estrinseche, non hanno un valore irrevocabile per il vicario di Cristo, che può, ove lo creda opportuno, mutare gli elettori, sceglierli da altre nazioni, cambiare il sistema di successione rendendolo ereditario (27). Anzi questa forma di trasmissione del potere, più adatta ad impedire lo scatenarsi delle ambizioni e le guerre sconvolgitrici delle nazioni, sarebbe da preferirsi (28). Ma non sembra che il Trionfo abbia creduto alla necessità dell'istituzione della monarchia universale. Una sola volta, a proposito del versetto di Luca: "Omne regnum in se divisum desolabitur, et domus supra domum cadet" (29), sostiene che vi debba essere l'imperatore per dirimere i conflitti internazionali (30). Ha invece un chiaro concetto della traslazione dell'impero. Egli afferma che il trapasso della suprema autorità temporale da un popolo [pag. 247] all'altro, è un fatto antico e recente nella storia. Nell'era cristiana fu effettuato dal papa, nell'età mosaica dai sacerdoti e profeti del vecchio Testamento. Samuele infatti dopo aver consacrato Saul, lo riprovò per le sue cattive azioni deponendolo dalla dignità regia che trasmise a David. Daniele espresse col famoso sogno della statua dal capo d'oro e dai piedi di argilla, l'autorizzazione da parte di Dio all'istituzione e allo svolgersi successivo dei quattro imperi che dovevano in varie epoche governare il mondo (31). Ma i due gloriosi personaggi del popolo ebraico non sono che pallide figure di Pietro e dei suoi successori (32). Seguendo S. Agostino (33), il Trionfo enumera le virtù che meritarono dal cielo ai Romani la gloria di creare il più forte organismo politico dell'antichità: la riverenza agli Dei, il valore e la clemenza verso i nemici, la fedeltà alla parola data e alla santità dei giuramenti, l'imparzialità nel rendere giustizia ai popoli soggetti (34). Il trasferimento della corte di Costantino da Roma a Bisanzio, segnò la fine dell'impero d'occidente. I sovrani greci col consenso del Sommo Pontefice ereditarono l'autorità degli antichi Cesari (35). E decaddero, in seguito, [pag. 248] divenuti ribelli al papa, dal loro posto privilegiato che fu occupato dai Franchi, accorsi solleciti in Italia per tutelare la libertà della S. Sede minacciata dai Longobardi (36). Il concetto che lo Stato sia, sorto non dal diritto di natura, ma da un disegno della Provvidenza che voleva servirsi di esso per la difesa della Chiesa, è il filo conduttore che schiarisce al Trionfo i grandi avvenimenti di cui è intessuta la storia umana. Da questa concezione storica il nostro autore traeva la conseguenza che l'imperatore non è che un semplice ministro del papa, un vassallo del potere spirituale cui deve il giuramento di fedeltà (37). E non può esercitare validamente alcun atto di governo sulle nazioni a lui soggette, se non dopo la ratifica della sua elezione, da parte del romano pontefice, e la consacrazione e l'incoronazione (38). Al vicario di Cristo compete [pag. 249] anche il diritto di chiamarlo al suo tribunale, di deporlo, per gravi motivi, dal trono; di scomunicarlo e di sciogliere i sudditi dall'obbligo dell'ubbidienza (39). Il Trionfo non rievoca mai la forza della tradizione di Roma. Scomparsa la dinastia Carolingia, la capitale dell'impero fu spostata in Germania e l'autorità passò alla Casa di Sassonia (40). Ma la monarchia universale è ammessa per non dire tollerata, soltanto in quanto già esiste e può essere utile alla vita della Chiesa. E se ancora il sovrano di Germania riceve l'appellativo onorifico d'Imperator Romanorum, questo titolo non significa che egli sia l'eletto del popolo dell'eterna Città, ma che il suo dominio ebbe una volta origine nella vecchia terra del Lazio: ratione derivationis propter dignitatem (41). L'universalità dell'impero è poi soltanto teorica, perchè di fatto molti principi sono indipendenti, e nell'avvenire vi è da temere piuttosto una maggiore divisione che una reintegrazione di questo grande organismo politico (42), cui nondimeno il nostro autore concede una durata che avrà fine soltanto [pag. 250] con la distruzione del mondo (43). A molti trattatisti dell'età di mezzo era balenato il concetto di una vaga sovranità popolare. Giovanni di Parigi, sia pure tra incertezze e contraddizioni, asseriva che il popolo crea il Re e l'esercito l' imperatore, che il monarca è un semplice amministratore dello Stato (44). Egidio stesso nel De Renuntiatione papae fonde insieme, come vedemmo, due teorie: quella dell'origine immediata da Dio di ogni autorità e l'altra della derivazione della potestas dal diritto di natura e di comunità. Questo principio novatore della sovranità popolare è poi chiaramente formulato, insieme a quello dell'elettività del potere, da Marsilio da Padova negli anni stessi che segnano il periodo della maggiore attività letteraria del Trionfo. Ma nel monaco agostiniano cercheremmo invano un'eco delle teorie che dovevano tracciare un solco così profondo nella nostra storia moderna. Anche quando è costretto a domandarsi come mai pochi personaggi delegati dal papa possano eleggere [pag. 251] l'imperatore, persona pubblica rivestita di una così alta ed universale autorità, il nostro scrittore risponde con una inconcludente ragione di metafisica: "Est dicendum, quod sicut dicit Philosophus 1° Met.: Actiones sunt suppositorum particularium. Ideo ius eligendi Imperatorum aliquibus personis particularibus committi oportuit" (45). La Summa de Potestate ecclesiastica si chiude con una invocazione alla Divinità: "Cum voluntate ergo recta et iusta, faciat nos aeternus Iudex in suo conspectu praesentari, ut satiemur, cum apparuerit nobis gloria eius, qui est benedictus in saecula saeculorum. Amen.". Noi non possiamo negare al pio e teocratico scrittore di Giovanii XXII la sincerità e la rettitudine, e ai suoi scritti, dai maggiori ai minori, la coerenza che manca qualche volta a quelli di Egidio. Anche una profonda competenza nel diritto romano e canonico ed una vasta cultura in tutto lo scibile del suo tempo dobbiamo tributargli, ed il merito di averla usata con parsimonia e discernimento.Nei trattati che abbiamo esaminato i tre filosofi agostiniani hanno esposto sistematicamente [pag. 252] la teoria dei diritti della potenza pontificia. Riguardo alla supremazia dell'autorità ecclesiastica su quella civile anche nel temporale, essi hanno completamente subito l'influenza dell'organizzazione politico-religiosa della società del loro tempo, senza che un dubbio sulla verità e giustizia dei principi che difendevano turbasse la loro mente. I migliori scrittori, nota Iean Rivière, li trattano oggi senza misericordia. Il Card. Billot scrive nel Tractatus de Ecclesia Christi (T. II, Prato 1910, p. 79-80): "Quod Ecclesia non accepit a Christo potestatem ullam temporalem sive politicam, et quod directam in saecularia iurisdictionem ipsa sibi nunquam vindicavit. In hac assertione facillime, nunc saltem, convenient omnes. Quod si qui olim, quos recenset Bellarminus (De Rom. Pont. I, 5. c. I) in partem oppositam declinaverunt, vix ac ne vix quidem sunt attendibiles. Nam vel fuerunt iurisconsulti in theologia parum versati, vel theologi sat obscuri nominis... Quorum rationes, si quid demonstrant, demonstrant protinus absolutam causae inanitatem". E. Dublanchy a lato "de l'erreur niant au pape tout pouvoir dans les choses temporelles" segnala parallelamente "l'erreur attribuant au pape, en ces matières, une jurisdiction universelle immediate". E non teme di affermare che Egidio ha proferito gravi errori "sur la jurisdiction ainsi que sur la propriètè et, par voie de consèquence, sur l'origine du pouvoir", e che uno dei grandi meriti del card. Torquemada è stato [pag. 253] quello di "rifiutare l'errore che attribuiva al papa una giuirisdizione universale immediata nelle cose temporali" (46). Ma i lavori che essi composero sono modelli di trattazione teologica come la richiedevano i tempi, e la loro dottrina, nel campo dell'ecclesiologia, fu in gran parte accettata dagli scrittori posteriori. Le somme del secolo XIII non avevano lasciato in questo ramo della teologia che sparsi elementi. Essi li raccolsero in sistema e fissarono la più antica esposizione dei caratteri essenziali alla natura della Chiesa e dei diritti spirituali del papato. La società dei fedeli è un vero regno che gode di molti privilegi e poteri che gli furono concessi dal suo divin Fondatore, ma come tutti gli organismi sociali costituiti da uomini, questo regno è governato da un capo visibile, il romano pontefice, che rappresenta il figlio di Dio, capo invisibile. La posizione del papa in rapporto a Cristo e ai membri della gerarchia ecclesiastica, l'estensione dei suoi poteri dottrinali e legislativi furono bene determinati e coordinati dai nostri filosofi, e la teologia del papato non riposa, si può bene asserire, su altre basi. Sotto la pressione della fede nella parola di Gesù, i tre grandi assertori della potenza pontificia furono anche gli illustratori e i poeti [pag. 254] di una grande idea che travagliò le menti dei pensatori medioevali: la fondazione del regno di Dio in terra"(47).
NOTE
(1)
Ex supplemento JACOBI PHILIPPI BERGOMATIS: Floruit (Augustinus) anno MCCCXXI. Ex magnis Chronicis de historiis aetatum mundi, ac descriptione urbium collectis a doctore Armanno Schedel: Floruit sub Ludovico Imperatore IV, anno Domini MCCCXX. GIOVANNI TRITEMIO nella sua opera De scriptoribus ecclesiasticis, dice che il Trionfo: Claruit sub Ludovico Bavaro Imperatore quarto, et Iohanne papa XXII. Anno Domini MCCCXX. La stessa affermazione abbiamo nel quarto libro della Bibliotheca Sancta di Sisto Senese.(2)
Summa de Potestate eccl., ediz. cit. pagg. 1-204.(3)
Ibid., pagg. 205-390.(4)
Ibid., pagg. 391-563.(5)
lbid., Quaest. I, art. 10, pag. 15.(6)
Ibid., Quaest. I, art. 5, pag. 8 e Quaest. XXIII, art. 2.,137.(7)
Quaest. I, art. 1, pag. 2: Potestas jurisdictionis dividitur in temporalem et spiritualem: et tunc respondendum est quod loquendo de potestate jurisdictionis temporalis et spiritualis, dicere possumus, quod talis potestas est triplex, scilicet immediata, derivata, et in ministerium data. Primo modo potestas jurisdictionis, omnium spiritualium et temporalium est solum in Papa. Secundo modo est in omnibus episcopis et prelatis. Tertio modo potestas jurisdictionis temporalis est in omnibus Imperatoribus, Regibus et principibus saecularibus.(8)
Quaest. I, art. 1, pag. 3.(9)
Ibid.,: Et si inveniatur quandoque aliquos imperatores dedisse aliqua temporalia summis pontificibus, sicut Constantinus dedit Silvestro, hoc non est intelligendum eos dare quod suum est, sed restituere quod iniuste et tyrannice ablatum est. Eodem modo, si legatur quandoque aliquos summos pontifices dare bona temporalia Imperatoribus et Regibus, hoc non est intelligendum eos facere in dominii recognitionem, sed magis in pacis ecclesiasticae conservationem, quia servum Dei non oportet litigare, sed mansuetum esse ad omnes. Lo stesso concetto era stato espresso un secolo prima da Innocenzo IV. Cfr. Iean Rivière, op. cit. pag. 45.(10)
Quaest. I, art. 3, pag. 5: Potestas papae est maior omni alia, maioritate auctoritatis. Quia nullius imperaratoris, regis vel alterius principis leges, seu statuta alicuius roboris, vel firmitatis esse censentur, nisi quatenus sunt per auctoritatem papae confirmatae et approbatae.(11)
Quest. XLIIII, art. 4-5, pagg. 242-243.(12)
Quaest. I, art. 1, pag. 3: Illa potestas est in ministerium data alteri, cui iuramentum fidelitatis praestat, et ab eo cognoscit esse omne quod habet: sed omnis potestas saecularium Principum, Imperatorum et aliorum est talis.(13)
Quaest. XLVI, art. 2, pag. 250.(14)
Ibid., art. 3, pag. 251: XXXV, art. 1, pagg. 205-206.(15)
Quaest. XLV, art. 3, pag. 248.(16)
Quaest. I, art. 9, pag. 13: Nam potestas Christi, qua nunc regnat, mediante Papa, tanquam mediante suo Vicario, consistit principaliter in tribus. Primo in debellatione tyrannorum. Secundo in ordinatione subditorum. Tertio in admonitione et exhortatione divinorum mandatorum.(17)
Quaest. III, art. 1, pag. 28.(18)
Ibid., pag 27: Quamvis enim Episcopi repraesentent personas apostolorum: non tamen repraesentant personas eorum ut Christo, vel ipsi Papae vicem eius gerenti, praesentialiter astiterunt, vel assistunt; sed magis ut ipsi diffusi in orbem terrarum, quilibet aliquam partem mundi in sorte praedicationis acceperunt. Cardinales vero personas apostolorum repraesentant, ut Christo et Papae vicem eius gerenti praesentialiter astiterunt, vel assistunt, et ideo convenientius electio summi Pontificis fit per eos, quam per Episcopos, vel alios Praelatos Ecclesiae.(19)
Ibid., pag. 28.(20)
Quaest. I, art. 1, pag. 2 : Sed auctoritate Papae fit Praelatorum electio et eorum confirmatio.(21)
Quaest., III, art. 7, pag, 35.(22)
Quaest. II, art. 1, pag. 18.(23)
Quaest. I, art. V, pag. 8.(24)
Quaest. XXXV, art. 2, pag. 206.(25)
Ibid.(26)
Così asserisce l'autore confondendo i Franchi occidentali con i Germani.(27)
Ibid., art. 7, pag. 210.(28)
Ibid.(29)
XI, 7.(30)
Quaest.: XXXV, art. 8, pag. 21.(31)
Quaest. XXXVII, art. 1, pag. 219.(32)
Ibid.(33)
De Civit. Dei, Lib. V, c. 12.(34)
Quaest. XXXVII, art. 2, pag. 220.(35)
Ibid., art. 3, pag. 221.(36)
La teoria della traslazione dell'impero era già stata formulata chiaramente da Gregorio IX in una lettera diretta a Federico II, in data 23 ottobre 1236 in cui aveva asserito che la S. Sede trasferendo l'impero ai Germani aveva usato dei suoi diritti, senza che essi fossero da questo atto menomati. "Sedes Apostolica transferens in Germanos... nihil de substantia sue iurisdictionis imminuens, imperii tribunal supposuit et gladii potestatem in subsecuta coronatione concessit. Ex quo iuri Apostolice Sedis et non minus fidei ac honori tuo derogare convinceris, dum factorem proprium non agnoscis". (Huillard Bréholles, Historia diplomatica Friderici II, t. IV, II, p. 922).(37)
Quaest. XXXVIII, art. 4, pag. 227.(38)
Quaest. XXXIX, art. 1-2, pagg. 227, 228.(39)
Quaest. XL, art. 1, 2, 3, 4, pagg. 230-232.(40)
Quaest. XXXVII, art. 4, pag. 222.(41)
Ibid.,: Imperator dicitur Rex Romanorum, non ratione electionis, vel nationis, sed propter dignitatem, ratione derivationis: quia inde derivatum est imperium: et ratione confirmationis et coronationis: quia ibi debet confirmari et coronari.(42)
Quaest. XLIII, art, 2, pag. 236.(43)
Ibid., art. 1, pag. 236.(44)
SCADUTO, Stato e Chiesa negli scritti politici della fine della lotta per le investiture sino alla morte di Ludovico il Bavaro. Firenze, Le Monnier 1882, p. 92. Mi sono avvalso dell'analisi delle teorie politiche di Agostino Trionfo contenuta in quest'opera nelle pp. 106-111. Per l'esame dei trattati minori del filosofo agostiniano e per l'esposizione e critica del "De Potestate ecclesiastica" di Egidio, mi hanno giovato i lavori citati dello Scholz.(45)
Quaest. XXXV, art. 2, p. 207.(46)
Rivière, op. cit. p. 373-374.(47)
Questi meriti dei tre filosofi agostiniani furono ottimamente rilevati da Iean Rivière nell'opera citata.
CAP. XII.
Egidio Romano e Dante
[pag. 255]
Crediamo opportuno accennare, prima di chiudere il nostro studio sui tre insigni agostiniani, alle relazioni che il più grande di essi ebbe con il nostro maggiore poeta. La tesi, che soltanto supponendo un intento polemico di Dante contro Egidio Romano possiamo spiegare alcuni passi del convivio e della Monarchia, ci è sembrata importante. L'abbiamo accolta dopo lunghe meditazioni e la presentiamo ai lettori convinti di recare con le nostre ricerche, un contributo, sia pur modesto, agli studi danteschi. Nel gennaio 1302, una sentenza di messer Cante Gabrielli di Agobbio, potestà di Firenze, gettava vagabondo sulle vie dell'esilio il divino Poeta. Le corti d'Italia videro in seguito errare lunghi anni questa magra e arcigna figura di sognatore che fremeva come un eroe, e come un apostolo declamava sulle catastrofi politiche del suo tempo. Ma non s'accorgeva, il Poeta, che sotto il crollo dell'idea imperiale da lui vagheggiata, si delineava il profilo di un'era nuova, sbocciava il virgulto di una civiltà superiore. [pag. 256] E tenace, inesorabile negli amori e negli odi, scagliava a capofitto nel suo Inferno, nella cerchia dei pozzi infiammati dei simoniaci, Bonifazio VIII, campione della teocrazia, e causa prima, con l'invio di Carlo di Valois nella bella città di Toscana, delle sue sventure. A Firenze Dante, pochi mesi avanti la sua condanna, aveva apertamente osteggiato la politica di papa Gaetani. Per ben due volte nel giugno del 1301, quando Matteo d'Acquasparta, ambasciatore della curia romana, aveva domandato al Comune cento cavalieri da inviarsi in Romagna a servizio della Chiesa, la sua voce aspra e grave si era levata contro questa proposta nei consigli della città, facendo pericolare la richiesta del legato pontificio. In sulla fine di settembre o nei primi di ottobre di quello stesso anno, un'ambasceria spedita da Firenze si recava dal papa per impedire che Carlo di Valois fosse mandato, come paciaro, in Toscana. A quanto riferisce Dino Compagni (II, 25), di questa ambasceria fu incaricato Dante insieme a Maso di messer Ruggerino Minerbetti e messer Corazza da Signa. A Roma l'occhio di Bonifazio dovette posarsi tra malevolo e curioso sull'oscuro personaggio che sapeva capo a Firenze di una minoranza avversa ai suoi disegni. Il papa intuì che l'uomo esile e forte che gli stava dinanzi era il nemico più pericoloso dei suoi progetti, e, rimandati in [pag. 257] patria gli altri due ambasciatori, lo trattenne alcun tempo presso di sé, quasi in ostaggio. Ma non poteva prevedere qual tremendo avversario la storia gli avesse posto di fronte! La vita del Poeta nei giorni trascorsi a Roma ci è purtroppo sconosciuta. Ignoriamo quali parole fossero da lui raccolte dagli anfiteatri e dai fori abbandonati e risuonanti delle note melanconiche delle cornamuse pastorali, dalle rovine che cingevano in un silenzio tombale l'antica città dei Cesari. Anche i monumenti del medio Evo, le sale sfarzose del Laterano dovettero parlare a Dante, schiudergli le grandi pagine del passato della Roma cristiana, la gloriosa istoria del potere teocratico. Ma l'animo suo così imbevuto di pensiero e di aspettazione spiritualista, rimase chiuso a questa visione, mentre ad una certa meraviglia fu certamente mosso alla vista del lusso di cui si circondava la corte del vicario di Dio. Forse fu una tale constatazione che un giorno lo fece escire in quella invettiva messa in bocca di S. Pietro contro la fastosità della Sposa di Cristo, così lontana dalla semplicità dei secoli eroici della povertà e del martirio (1). Non è improbabile che il grande Poeta, nella turba dei prelati che si aggiravano tra gli splendori della basilica e del patriarchio lateranense, sia apparsa la pallida figura di Egidio Romano, l'eloquente difensore della [pag. 258] potenza politica dei papi. Proprio in quei giorni partiva dalla S. Sede l'ordine di convocazione, per l'autunno del 1302, di un concilio che giudicasse la condotta di Filippo il Bello, ed il pontefice incaricava l'antico generale degli Eremitani, diventato da pochi anni arcivescovo di Bourges, di scrivere il "De potestate ecclesiastica", un'opera destinata a diffondere, presso il pubblico colto, oltre la cerchia angusta dei teologi e dei canonisti, la supremazia del papato su tutte le potestà terrene. E' perciò verosimile che egli si trovasse in sulla fine del 1301 presso l'amico e protettore Bonifazio VIII, e che s'incontrasse col Poeta. Vera o no quest'ipotesi, il nome di Egidio era così celebre nel mondo scientifico che Dante non poteva ignorarlo. E più volte in seguito, l'esule ghibellino, combatterà le teorie del monaco agostiniano e dei migliori scrittori della sua scuola, pur senza menzionarli. Nell'ultimo scorcio del secolo XIII, al fiorimento economico di Firenze, si era aggiunto quello intellettuale. Mentre i ricchi mercanti e banchieri della città acquistavano un vero e proprio monopolio in alcune branche del commercio internazionale, i letterati creavano la poesia del dolce stil nuovo e gli artisti iniziavano un vasto movimento di riforma nell'arte. In pochi anni si era costruito il palazzo del Bargello, rivestito di marmi il bel S. Giovanni, avviata la fondazione di Palazzo Vecchio e di S. Maria del Fiore, portate [pag. 259] a compimento le costruzioni delle chiese di S. Croce e di S. Maria Novella. Presso i monasteri fioriva lo studio delle scienze e della filosofia, e Dante frequentava queste scuole, perché ci dice nel "Convivio" (2) che era solito assistere alle disputazioni dei fìlosofanti. Oltre i francescani e i domenicani, anche gli eremiti di S. Agostino avevano aperto un importante centro di studi nella casa fondata, verso la metà del secolo, da frate Aldobrandino, nella località detta di S. Spirito (3). Questo convento acquistò ben presto molte benemerenze nel campo scientifico e letterario, e numerò parecchi illustri alunni. Ad un religioso che vi lasciò un nome celebre, il P. Luigi Marsili, fine scrittore ed umanista, inviava il Petrarca già vecchio un libretto delle "Confessioni di S. Agostino" che a lui a Parigi un altro agostiniano, fra Dionigi Roberti da Borgo S. Sepolcro, aveva donato. Ed il Boccaccio venne in questa casa, dopo la crisi e la conversione religiosa per cercarvi un po' di conforto e di consiglio, e l'ebbe da fra Martino da Signa che elesse suo confessore, cui, morendo, lasciò per testamento i libri andati poi miseramente perduti. Sebbene Dante fosse di quelli che si cibano per sè della sapienza divina e umana, [pag. 260] nondimeno la conversazione dei pii religiosi della sua città influì beneficamente sul suo progresso intellettuale E nelle scuole dei monasteri fiorentini s'iniziò ai grandi sistemi scolastici e al nuovo linguaggio poetico. E apprese che la grandezza dei letterati antichi non consiste nell'ornamento favoloso ond'essi rivestirono i loro fantasmi di arte, ma nei precetti di filosofia che vollero con bella forma insegnare, che nel poema di Virgilio si velava una sapiente rappresentazione allegorica della vita, come già aveva insegnato Fulgenzio Planciade, che vero poeta è colui che sa creare un opus doctrinale, una poesia cioè grave di verità e di ammaestramento. A S. Maria Novella udì spiegare la Summa di Tommaso di Aquino, a S. Spirito ebbe la notizia delle Opere di Egidio Romano, diventato fin dal 1287 il filosofo ufficiale degli Eremitani di S. Agostino. E al grande maestro, derogando dal costume medioevale di citare nei libri soltanto gli autori già morti e consacrati dalla gloria, tributò l'alto onore di menzionarlo, ancor vivo, nel Convivio: "e lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice (di questo diverso processo delle etadi) nella prima parte dello Reggimento de' Principi... dico che questa prima etade è porta e via per la quale s'entra ne la nostra buona vita" (4). Malgrado la sua contrarietà alle [pag. 261] idee politiche del celebre discepolo di S. Tommaso, il grande Poeta s'inchinava alla sua autorità, e l'onorava come uno dei filosofi più acclamati dell'Università parigina. Ma quanta diversità di carattere, quale insanabile dissidio di teorie fra i due scrittori! Egidio è amico di Bonifazio VIII e scrive un trattato per difenderne l'elezione, Dante invece conserva sempre una paurosa avversione verso l'inflessibile pontefice, di cui anche nell'Empireo condanna la memoria (5), bollando, in pari tempo, d'infamia con un verso oscuro, ma forte del suo inferno, Celestino V che ne aveva facilitato, abdicando, l'assunzione alla cattedra di Pietro. L'uno, l'agostiniano, nel Contra exemptos si schiera decisamente in favore di Filippo il Bello contro i Templari, l'altro, il Poeta, lancia all'ambizioso sovrano l'invettiva atroce di aver rinovellato a Cristo, con il dramma di Anagni l'insulto del fiele e dell'aceto, e di aver portato sanza decreto, nel Tempio, le cupide vele. Ma nel Convivio per la prima volta, trattando dell'essenza della nobiltà, il Poeta incrociò il ferro con il filosofo. L'occasione gli fu offerta da un'idea sostenuta nel "De Regimine Principum" dal maestro eremitano. Esponendo le norme che devono regolare i rapporti del sovrano con i sudditi e i ministri, Egidio aveva giustamente osservato che il Re deve comportarsi [pag. 262] con i dipendenti signorilmente, secondo i dettami della carità e della giustizia. E appellava "curialitas", cioè derivata dalle tradizioni di cortesia e gentilezza delle case nobiliari, (curiae) l'abitudine di seguire queste regole nella vita pratica (6). Ma aveva espresso alcune teorie sulla nobiltà che a Dante sembrarono fortemente sospette di attaccamento ai pregiudizi di casta. Egli distingueva una duplice nobiltà, di nascita e di costumi, fondando l'una sull'opinione del volgo solito a mettere in prima linea i beni materiali e la potenza terrena, e l'altra cui attribuiva maggior pregio, sul valore morale e intellettuale l'individuo (7). Ma anche la prima merita tutto il nostro rispetto, e basta il consenso della maggior parte degli uomini per conferirgli la vera essenza della nobiltà, essendo impossibile, secondo il detto di Aristotele, che un'opinione diffusa non abbia un fondamento di realtà (8). Dante volle anch'egli definire il concetto di nobiltà nel quarto libro del Convivio. Nessun dubbio [pag. 263] per noi che alcuni passi di questo trattato siano rivolti contro le teorie esposte nel "De Regimine Principum" da Egidio. Egli risponde al monaco agostiniano che non esiste nobiltà se non nella virtù, e allude a lui con frasi che hanno un aspro sapore d'ironia e di sdegno. Ma lasciamo la parola al grande Poeta: "...dov'è da sapere che Federigo di Soave, ultimo imperadore de li Romani... domandato che fosse gentilezza, rispuose ch'era antica ricchezza e belli costumi. E dico che altri fu di più lieve savere: chè, pensando e rivolgendo questa diffìnizione in ogni parte, levò via l'ultima particula, cioè li belli costumi, e tennesi a la prima, cioè a l'antica ricchezza; e, secondo che lo testo pare dubitare, forse per non avere li belli costumi non volendo perdere lo nome di gentilezza, diffinio quella secondo che per lui facea, cioè possessione d'antica ricchezza. E dico che questa oppinione è quasi di tutti, dicendo che dietro da costui vanno tutti coloro che fanno altrui gentile per essere di progenie lungamente stata ricca, con ciò sia cosa che quasi tutti così latrano" (9). Vi era dunque uno scrittore così autorevole da trascinare molte persone dietro di sé e da esser preso in considerazione dal Poeta, un personaggio importante che, nato di famiglia patrizia, riponeva nel [pag. 264] l'antica ricchezza, cioè nei beni di fortuna ereditati da una lunga serie di antenati, il concetto di nobiltà. Ma a quale autore meglio che ad Egidio Romano convengono le allusioni di Dante? L'antico superiore degli Eremitani era infatti discendente della casata dei Colonna (e le parole del Convivio confermerebbero la notizia tramandataci intorno alla sua nascita da Giordano di Sassonia), godeva di tanta celebrità da essere appellato da Goffredo di Fontaines il migliore filosofo della sua epoca in Parigi, melior de tota villa (10), e sosteneva le teorie condannate dal Poeta. Nè deve ingenerarci il dubbio l'accenno velato ad una sua condotta morale degna di biasimo, "forse per non avere li belli costumi non volendo perdere lo nome di gentilezza". Sappiamo che spesso l'acredine politica fa velo a Dante trascinandolo a giudizi e condanne severe verso i suoi avversari, e inoltre voci malevole erano corse più volte sul conto del monaco agostiniano. Pietro Zittau, per citare uno scrittore contemporaneo, lo accusò di ambizione e di servilismo a Bonifazio VIII (11), e queste dicerie potevano esser giunte all'orecchio di Dante. Ma v'ha un altro argomento decisivo in favore della nostra tesi. Egidio appoggiava il suo ragionamento, come abbiamo veduto, su una [pag. 265] sentenza di Aristotele, letta probabilmente nel Commento all'Etica Nicomachea di. S. Tommaso: "Illud enim in quod omnes vel plures consentiunt, non potest esse omnino falsum" (12). Ebbene proprio questo passo dello Stagirita è riportato nel Convivio come la prova più forte addotta dall'autore combattuto a sostegno della propria asserzione, e riceve dall'Alighieri una diversa interpretazione. "Queste due oppinioni, dice il poeta, (l'una di Federico II, l'altra dello scrittore di cui l'opera dantesca non ci rivela il nome), due gravissime ragioni pare che abbiano in aiuto: la prima è che dice lo Filosofo che quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso" (13). Ma questo argomento, vero in sé, non ha valore nel caso nostro, perchè "quando lo Filosofo dice: Quello che pare a li più, impossibile è del tutto, essere falso, non intende dicere del parere di fuori, cioè sensuale, ma di quello dentro, cioè razionale: con ciò sia cosa che: 'l sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente ne li sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato" (14). E conchiude il Poeta: "E così quelli che dal padre o d'alcun suo maggiore [pag. 266] (è stato scorto e errato ha 'l cammino), non solamente è vile, ma vilissimo, e degno d'ogni dispetto e vituperio più che altro villano" (15). Vi è in queste parole di Dante come un'eco del soffio democratico che aveva pervaso l'Italia e specialmente Firenze, pervenuta con gli Ordinamenti di Giustizia ad un alto grado di libertà non mai raggiunto da nessun altro governo di quel popolo. In seguito, disgustato degli uomini che agitavano la sua città nativa spadroneggiandovi colla petulanza provocante dei nuovi arrivati, il Poeta che pure aveva dato il suo nome alle corporazioni delle arti, si raccolse nelle memorie del passato, e nel canto di Cacciaguida si compiacque di essere disceso da avi illustri (16). Ma quando componeva il Convivio il suo concetto della nobiltà era diverso ed egli attaccava uno scrittore dissenziente da lui e certamente notorio se poteva muoverlo ad una critica così acerba. Di questo autore egli non rivela il nome né il libro, ma riferisce le idee e gli argomenti che sono gli stessi esposti nel "De Regimine Principum", e li riporta con le stesse parole usate da Egidio Romano. Possiamo dunque identificare con questo ultimo l'innominato personaggio, oggetto delle ire di Dante. [pag. 267] In un'altra opera dell'Alighieri la lotta contro l'arcivescovo di Bourges diviene più serrata. E' sembrato giustamente al Vossler (17) che la forma esteriore della Monarchia divisa in tre parti, ricordi in qualche modo la partizione, triplice anch'essa, della materia del "De Potestate ecclesiastica. Ambedue i trattati espongono il fine e l'essenza di un potere mondiale, dell'imperatore e del papa, secondo il sistema politico di ciascun autore, estendono a tutti i beni temporali il diritto di dominio di quella potestà, confutano infine le singole ragioni degli avversari. Tuttavia non bisogna credere che la Monarchia sia un'opera sistematicamente contrapposta al De Potestate ecclesiastica, sarebbe un rimpicciolire il valore dello scritto dantesco, attribuire una mente gretta e velenosa al suo autore. Gli argomenti dei curialisti combattuti dal Poeta si trovano, è vero, nel trattato egidiano, ma erano allora di dominio pubblico e correvano per le bocche e nei libri di tutti. Ma d'altra parte non si possono chiamare fortuiti i continui punti di contatto che risaltano anche ad una superficiale lettura delle opere dei due scrittori. E non mancano del resto le allusioni particolari all'arcivescovo di Bourges, specialmente in merito [pag. 268] alla questione della proprietà ecclesiastica che per Egidio è, in fondo, l'unica legittima. Era questo uno dei grandi quesiti di quei tempi su cui si dividevano gli animi dei trattatisti. La discussione sugli inizi del secolo XIV si era improvvisamente allargata, e su di essa veniva maturando lo scisma dei Minoriti che costituì una delle pagine più bizzarre della storia della Chiesa. Si disputava acremente sulla povertà stessa di Cristo e degli apostoli, i quali, non avendo posseduto nulla di proprio, avrebbero fatto di quella virtù, secondo gli Spirituali, uno stretto articolo di fede per i cristiani. Trattando di questa questione Dante non manca di lanciare i suoi strali contro il monaco agostiniano. Lo Stato, egli dice, dà o lascia beni materiali al clero per il solo vantaggio dei poveri, e questo è il titolo unico al possesso delle cose temporali. "Contro al romano principato, (l'impero), han fatto un gran fremere e rivolto vani pensieri coloro che si dicono zelanti della fede cristiana eppur non hanno compassione dei poveri di Cristo: i quali non solo son defraudati dei semplici proventi ecclesiastici, ma tuttodì son derubati del patrimonio stesso, con l'impoverir che si fa la chiesa" (18). E il Poeta continua: "Del resto codesto stesso impoverimento della Chiesa non avviene senza divino giudizio. Gli è che [pag. 269] né con le sostanze della Chiesa si sovvengono i poveri, dei quali esse son patrimonio, nè all'impero, che è quel che le offre, si serba la debita gratitudine. Tornino dunque pure donde provennero: vennero bene, tornino male; giacchè furon ben date e mal possedute. Ma che importa di ciò ai pastori quali li abbiamo? che importa loro se la sostanza della Chiesa se ne sfuma, purchè s'aumentino gli averi dei lor parenti? Ma è meglio forse ritornare al nostro proposito, ed in pio silenzio aspettare il soccorso del nostro Salvatore" (19). Ma chi sono costoro che fremono e rivolgono pensieri contro l'impero e non hanno pietà dei poverelli di Cristo? Dante allude in primo luogo ad Egidio Romano. Il confronto di un altro luogo della Monarchia rende quasi certa questa nostra ipotesi. Nel secondo libro del De Potestate ecclesiastica ben dieci capitoli (1-10) trattano della liceità della proprietà ecclesiastica. Dopo avere riportato e interpretato alcuni testi scritturali che sembrano contrari al suo assunto (20), l'arcivescovo di Bourges ne adduce finalmente altri che si prestano ad un senso favorevole (21). Specialmente su due passi di Luca egli si sofferma, traendone la conclusione che in un [pag. 270] primo tempo il Signore proibì ai suoi ministri il possesso dei beni temporali, ed in seguito revocò tale divieto. Ecco le parole del filosofo agostiniano: "Nam, ut diximus, Lucae, X, Dominus mandavit discipulis non portare sacculum neque peram: postea, Lucae, XXII, Dominus dixit eis: Qui habet sacculum, tollat similiter et peram. Primo ergo Dominus inhibuit discipulis habere temporalia, postea concessit" (22). Ebbene si confronti questo periodo del "De Potestate" con un altro della Monarchia: "Sed Ecclesia omnino indisposta erat ad temporalia recipienda per preceptum prohibitivum expressum ut habemus per Matheum sic: Nolite possidere aurum, neque argentum, neque pecuniam in zonis vestris, non peram in via, etc. Nam etsi per Lucam habemus relaxationem precepti quantum ad quedam, ad possessionem tamen auri et argenti licentiatam Ecclesiam post prohibitionem illam invenire non potui" (23). Da questo luogo balza chiaro e limpido il pensiero di Dante sulla derivazione e sullo scopo delle ricchezze ecclesiastiche e sull'uso che è lecito farne. Anche il Poeta attribuisce, proprio come Egidio, a S. Luca alcune parole che farebbero supporre una rilassatezza (relaxatio) nel precetto divino, ma nega che dai libri sacri il clero possa trarre l'autorizzazione all'acquisto [pag. 271] e al possesso dei beni terreni. Nella Monarchia si accenna alla frase dell'evangelista senza indicare il capo da cui essa è tratta, ma crediamo che si debba identificare questo luogo di S. Luca col capo XXII, v. 36, collo stesso passo cioè di cui si valeva l'arcivescovo di Bourges per provare la liceità della proprietà ecclesiastica (24). Il poeta probabilmente ha letto l'interpretazione egidiana del passo di S. Luca e la teoria del filosofo agostiniano sulla proprietà ecclesiastica e ha voluto confutarla. Avrebbe così un nuovo appoggio la tesi da noi sostenuta che tra le finalità che mossero Dante a scrivere il celebre trattato politico, vi fosse anche quella di contrapporre un lavoro scientificamente condotto, alla propaganda in favore dell'idea teocratica fatta da Egidio Romano col De Potestate ecclesiastica. Noi non neghiamo la difficoltà di provare il nostro assunto. Non ci moviamo nel campo metafisico, dove, secondo il principio d'Aristotele, la verità o la falsità di un asserto si dimostrano soltanto con quegli argomenti che valgano a fissare la ragione dialettica del rapporto enunciato nella tesi. Ma il nostro è il terreno spesso infido [pag. 272] della critica, dove la certezza rampolla da un fascio di probabilità, e la prova di ogni assunto contenuto nella sfera delle indagini critiche è raccomandato spesso, come nel caso nostro, ad un insieme ampio di ricerche e d'induzioni. Un'altra particolare allusione ad Egidio si può vedere nel terzo, libro della Monarchia, nell'enumerazione delle varie categorie degli oppositori dell'immediata derivazione della potestà imperiale da Dio. L'idea centrale del De Potestate ecclesiastica è tutta racchiusa nel concetto che lo Stato è un organo della Chiesa. E perciò il sommo gerarca, in virtù dell'autorità di cui lo investì Cristo, può istituire la potestà terrena, e destituirla o trasferirla ove lo creda opportuno. Questa teoria comune agli scrittori di curia è invece aspramente combattuta da Dante, che analizzandola minutamente e ribattendola, coglie in pari tempo l'occasione di colpire Egidio e forse il suo discepolo Giacomo da 'Viterbo. "Summus namque Pontifex, Domini nostri Iesu Christi vicarius et Petri successor, cui non quicquid Christo sed quicquid Petro debemus, zelo fortasse clavium, nec non alii gregum christianorum pastores, et alii quos credo zelo solo matris Ecclesiae promoveri, veritati quam ostensurus sum de zelo forsan, ut dixi, non de superbia contradicunt" (25). Vi sono dunque alcuni Pastori del [pag. 273] gregge cristiano che in buona fede, per attaccamento al potere teocratico, negano l'origine diretta da Dio dell'impero unendo le loro voci a quella del papa per combattere la supremazia nel temporale della monarchia universale laica. A questa constatazione di fatto, il Poeta aggiunge l'osservazione che il Capo supremo della comunità dei fedeli non gode della stessa autorità che aveva Cristo, ma soltanto di quella più modesta che spettava a Pietro. Ma proprio quest'argomento del diritto del Sommo Pontefice ad essere investito di tutta la potestà concessa in terra al Figliuolo di Dio, è una delle teorie principali sostenute dai due monaci agostiniani. E ad essi possiamo asserire che alludesse Dante, specialmente se consideriamo che erano, se non gli unici, almeno i più illustri dignitari della Chiesa che contraddicessero al divino Poeta. Ma non basta ancora. Nell'ultima pagina della Monarchia sono esposti e confutati nove argomenti, uno naturalista, cinque biblici, due storico-giuridici e l'ultimo metafisico della pubblicistica guelfa. Il primo è il noto paragone del sole e della luna, quelli scritturali riguardano fatti dell'antico e del nuovo Testamento, come il diritto di anzianità di Levi, figlio di Giacobbe, sul fratello Giuda, la deposizione di Saul eseguita da Samuele per comando di Dio, l'offerta dell'oro e dell'incenso a Cristo nel presepio, le due spade che avevano gli apostoli quando Gesù fu catturato, [pag. 274] la potestas ligandi et solvendi concessa ai dodici dal Signore. Le ragioni storico-giuridiche si fondano sulla pseudo-donazione di Costantino e sul trasferimento dell'impero, per ordine del papa, ai greci prima e poi ai tedeschi. Infine l'ultima prova desunta dall'ordine metafisico si basa sul principio dell'unità che coordinava nel medioevo le scienze e si voleva che regolasse anche la politica. A questo ragionamento degli avversari, Dante ne opponeva un altro che non è qui il luogo di discutere e di analizzare. Ma è probabile che alcuni degli argomenti fondamentali dei sostenitori del potere spirituale, egli li abbia letti nel "De Potestate ecclesiastica". Infatti nel trattato egidiano le due ragioni storico-giuridiche sono esposte nel capo terzo del libro primo, nel quinto del secondo e nel secondo del terzo: quella delle due spade ricorre più volte nei libri primo (c. 3°) e secondo (cc. 5°, 13° e 15°): l'offerta dell'incenso e dell'oro è menzionata nel c. 5° del libro secondo: la deposizione di Saul è ricordata come prova della dipendenza della potestà laica da quella sacerdotale nei capitoli 4° e 7° dello stesso libro secondo. Riscontri questi che potrebbero essere anche eventuali essendo comuni alla pubblicistica dell'età di mezzo, ma che acquistano nel caso nostro un rilievo speciale dalle altre affinità ed analogie [pag. 275] osservate fra l'opera di Dante e quella di Egidio, e concorrono anch'essi a formare quel fascio di probabilità da cui rampolla, come abbiamo detto, la certezza per la nostra tesi. Un parallelismo di altre teorie filosofico-sociali del Convivio e della Monarchia con alcune concezioni dello stesso ordine del De Regimine Principum volle istituire Carlo Cipolla in un pregevole lavoro pubblicato nel 1891 (26). A lui sembra possibile confrontare la prima parte del terzo libro del trattato egidiano, in cui si coordinano subordinatamente le società di famiglia, di città e di regno, e si dichiara propter quod bonorum inventae fuerunt quelle comunità, con i passi del quarto libro del Covivio che trattano del medesimo argomento (27). Una lontana relazione nota inoltre fra le ragioni che muovono lo scrittore agostiniano a preferire il governo monarchico a quello democratico e i motivi che inducono Dante a stabilire la necessità dell'impero (28). Ma sono idee generiche e comuni ai trattatisti di quell'età che si trovano alla base di qualsiasi sistema sociale-politico in quei tempi escogitato E riteniamo perciò insieme al Boffito (29), che siano meramente [pag. 276] fortuiti questa volta i richiami fra i due autori.Il filosofo agostiniano che un giorno riempì Parigi e il mondo cattolico della sua fama è oggi un dimenticato. Le sue opere manoscritte o stampate giacciono polverose nelle biblioteche e pochi studiosi di storia e di scienza medioevale le ricercano. Ma io mi accostai con amore questo grande che una vasta orma segnò nella scolastica, e un contributo notevole portò alla letteratura politica del suo tempo. Recentemente un colto professore del Collegio Angelico gli tributava la lode di scopritore d'importanti teorie nel campo della psicologia sperimentale (30). Alcune sue interpretazioni delle dottrine di S. Tommaso fecero testo nella filosofia cattolica, come quella intorno alla materia, principio d'individuazione. Questo signum, questo principium individuationis, egli lo ripose nella stessa materia, ma in quella "certa quantità di essa che s'investe di una data forma per costituire un individuo, [pag. 277] nè può costituirne più d'uno, né può investirsi d'altra forma" (31). Invece la gloria di Dante si è librata sempre nel corso dei secoli. Le poche linee con cui fu disegnata la maschera di questo terribile poeta, rimasero scolpite indelebilmente nella memoria degli uomini. Egli assommò in sé tutti i caratteri della nostra razza, e ne fu il genio ed il cantore. Ma si può dire che nella sua opera titanica fece echeggiare il canto eterno della cristianità. In una idea il Poeta s'incontrò col suo troppo minore antagonista: nella glorificazione di un concetto universale che partiva da Roma. Ed era il potere imperiale in Dante, quello teocratico in Egidio. Ma sempre la forza ideale dell'Urbe, il fascino eterno di una città allora circondata di silenzio e di campagne malsane, muoveva i loro cuori e le loro intelligenze. E quanto più vuota di abitanti, quanto più ravvolta di ruine, tanto più l'antica sede dei Cesari e poi dei Sommi Pontefici, splendeva sulle coscienze come potenza morale.
NOTE
(1)
Parad., XXVII, 40-66.(2)
II, 13.(3)
Cfr. Bollettino Storico Agostiniano, Firenze, anno I, fasc. I, pag. 11.(4)
IV, 24.(5)
Parad., XXX, 148.(6)
De Regim. Princip., lib. II, pars III, c. 189.(7)
Ibid.,: Possumus enim distinguere duplicem nobilitatem, unam secundum opinionem, ut nobilitatem generis: et aliam secundum veritatem, ut nobilitatem mororum... Vera tamen nobilitas est secundum excessum virtutem et nobilitatem morum.(8)
Ibid.,: Tamen quia nunquam fama totaliter perditur, et quod communiter dicitur, impossibile est esse falsum secundum totum, ut videtur velle Philosophus 7° Ethicorum, hujusmodi vulgaris opinio alicui probabilitati innititur.(9)
Convivio, IV, 3, pag. 249-250. (Testo critico della Società dantesca italiana).(10)
Cfr. pag. 35 di questo volume.(11)
Vedi sopra pag. 42.(12)
Comm. in decem libros ethicorum ad Nicomachum, Parma typ. Fiaccadori 1866, Lib. VII, I. XIII, pag. 257, col. I.(13)
Convivio, IV, 3, pag. 250.(14)
Ibid., pag. 262.(15)
Ibid., pag. 260.(16)
Anche nella Monarchia (II, 3) per provare che ai Romani apparteneva l'impero del mondo, risalendo alle loro origini, tesse l'elogio della nobiltà dei natali.(17)
KARL VOSSLER, La "Divina Commedia" studiata nella sua genesi e interpretata. Trad. di Stefano Iacini, Bari, Laterza, 1910, vol. I, parte II, pag. 443.(18)
Monarchia, II, XI, pagg. 338-389.(19)
Ibid.. Cito la versione che di questo passo ha dato Francesco d'Ovidio: "La proprietà ecclesiastica secondo Dante", in Studii sulla Divina Commedia, Sandron, Palermo 1901, pag. 407.(20)
Num. XVIII, 20: Matt. X, 9: Luca X, 4.(21)
Num. XXXV, 2sgg.: Luca XXII, 36.(22)
De Potestate eccl., II, 3.(23)
III , 10, pag. 404.(24)
Il MOORE (Studies in Dante, Clarendon 1896, pag. 390) ha creduto che il Poeta alludesse al versetto IX, 3 di Luca o X, 4. Ma non mi sembra chiaramente espressa in questi passi l'idea della relaxio del precetto divino. Per il raffronto tra la Monarchia e il De Potestate ecclesiastica cfr. anche G. BOFFITO, Saggio di Bibliografia egidiana, Firenze, Olscki 1911, pagg. XXXVIII-XXXI.(25)
Mon., III, 3, pag. 393.(26)
CARLO CIPOLLA, Il trattato De Monarchia di Dante Alighieri e l'opuscolo De Potestate Regia et Papali di Giov. da Parigi. Torino, Carlo Clausen, 1892.(27)
Ibid., pag. 27.(28)
Ibid., pag. 28.(29)
Op. cit., pag. XXX.(30)
P. M. BARBADO, La Conciencia sensitiva sugun Santo Tomas. Madrid, Tip. de la "Rivista de Archivos, Bibliotecas y Museos", 1924, pag. 32.(31)
GENTILE, I problemi della scolastica. Laterza, Bari, 1913, pag. 184.
BIBLIOGRAFIA
Della vasta produzione storica intorno al pensiero politico medioevale e ai tre scrittori agostiniani, cito qui le opere di cui mi sono in particolare avvalso:
1. CH. IOURDAIN: Un ouvrage inedit de Gilles de Rome, in Iournal général de l'instruction publique, (24 e 27 febb. 1858) e in Excursiones historiques et philosophiques à travers le le M. Age. Paris, Firmin. Didot, 1888 (pp.173-197).
2. NICOLA MATTIOLI: Studio critico sopra Egidio Romano, Roma, Tip. della Pace di F. Cuggiani, 1896.
3. P. MANDONNET: La carrière scolaire de Gilles de Rome, in Revue de sciences philosophiques et theologiques VI année, Iuillet 1910, pp. 480-499.
4. GIUS. UGO OXILIA E GIUSEPPE BOFFITO: Un trattato inedito di Egidio Colonna, Firenze, Successori B. Seeber 1908.
5. G. BOFFITO, Saggio di Bibliografia Egidiana, Firenze, Leo S. Olschki, 1911, pp. XIX-XXXI.
6. X. ARQUILLIERE: Le plus ancien traité de l'Eglise. Jacques de Viterbe: de Regimini Christiano. Paris, G. Beauchesne 1926.
7. BIAGIO CANTERA: Documenti riguardanti il B. Giacomo da Viterbo, Napoli 1888. Tip. Accad. Reale delle Scienze.
8. FRANCO SCADUTO: Stato e Chiesa negli scritti politici dalla fine della lotta per le investiture sino alla morte di Ludovico il Bavaro, Firenze, Le Monnier 1882.
9. RICHARD SCHOLZ: Die Publizistik zur zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII, in Kirchenrechtliche Abhandlungen her von Ulrich Stutz. Stuttgart, Encke 1903.
10. RICHARD SCHOLZ: Unbekannte Kirchenpolitische Streitschriften aus der Zeit Ludwig des Bayern (1327-1354). Rom. Verlag von Loescher. 11. R. W. CARLYLE and A. I. CARLYLE: A History of medioeval political theory in the West, t. I-IV. Edinburgh and London (1903-1922).
12. A. SOLMI: Stato e Chiesa secondo gli scritti politici da Carlo Magno al Concordato di Worms. Modena 1901.
13. A. SOLMI: Stato e Chiesa nel pensiero di Dante. Firenze 1921.
14. IEAN RIVIERE: Le Problème de l'Eglise et de l'Etat au temps de Philippe Le Bel, Louvain, Spicilegium Sacrum, 1926.
15. V. T. COGLIANI: Giacomo Capocci e Guglielmo de Villana, in Rivista d'Italia, 1909, t. II, pp. 430-459.